CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

giovedì 10 marzo 2022

SOLDATO VALOROSO DI MARTE (45)

 









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Il velo di Iside  (46)   





                       

 

Soldato valoroso di Marte, 

 

Se agli afflitti è concesso di poter alto levar delle grida, e con voci toccare le orecchie del sacro Giove, che le vostre accolgano questa lettera mia vi appello e vi scongiuro con ripetute instanze, cui rispondendo con la solita benignità potranno i vostri mansueti colloqui, se volete, e di volerlo vi prego, in molte maniere un’anima rifocillare che spasimante delira.

 

Io dunque, suddito vostro, in tenebre d’ignoranza ravvolto, essere rozzo, inerte e indigesta mole, informe, vivente senza titolo, trovandomi tutto ’l corso della mia vita da’ giuochi della Fortuna sconquassato, di miseria ammantato, sempre in tenebrosi andirivieni laberintei, cacciato al fumo stigio di rozza gente, con sempre davanti agli occhi il fango d’agresti villani, udendo gli asinini loro latrati, pascendomi d’erbe, odorando fetori che stomacano, toccando spine di certa ruvidità, stavamene in Bergamo virgiliana, ed ivi fruiva imperturbato della mia libertà; quando una volta mi levai prima del giorno, tutto debole e sonnacchioso, e, aperto l’uscio, me n’andai fuora del mio tugurietto incamminandomi per l’umido lido…




…E già la notte cominciando a mutarsi in giorno, ed io presso la tomba di Marone passeggiandomene spensierato ed incauto, ecco d’improvviso donna serena, come folgore discendente mi apparve non so come, tutta e per maniere e per aspetto al mio gusto conforme. Oh come a tale apparizione stupi il tanto che parvemi d’esser diventato altra cosa che non me stesso; anzi, io mi sentivo un fantasma, e così, fuori di me e sbigottito, nella mia insensatezza da sveglio sognava domandandomi se, ad occhi da sì lungo aperti, fossi desto davvero.

 

Alla fine il mio stordimento cessò pel terrore d’un tuono, che seguì. Giacché siccome a’ lampi celesti vengono subito dietro i tuoni, così veduta appena la fiamma di quella bellezza, amor terribile ed imperioso mi prese e fiero, pari a signore che, scacciato dal suol natio, dopo lungo esilio alle sue terre ne torna, quant’era in me di contrario a lui od uccise o cacciò via o di catene ricinse.




Ma qual aspro di me governo senza opposizione d’alcuna virtù facesse, cercatelo fuor dell’angustia di questo foglio, là dove con breve calliopeo discorso in duplice modo sarà divulgato.

 

Ma che?

 

Dopo lungo travaglio, alfine meritai la grazia della mia dominatrice; che io vivace sì, ma rustichetto, breve tempo mantenni. Per altro stando nell’auge della ruota volubile senza conoscere le giravolte lubriche, gli instabili assalti, e le reciproche vicissitudini delle fortune, all’impensata essendo nato un caso da scriversi con lacrime, non con inchiostro, ingiustamente nondimeno vengo alla mia signora in orrore, per lo che mi trovai gittato in un abisso di mali e miserabilmente per terra.

 

In tale stato turbato gridai più volte: ‘oimè!’.




Né valendo ingegno a riacquistarne la grazia, spesso l’arrossata faccia coperta di lacrime nel guanciale  nascondeva, il misero petto da vari pensieri affannato sopportava, e le miserie mie, riandando penosamente i tempi anteriori, con pianto e querimonie nutriva. Per che, rimasto così travagliato per lungo tempo, e non vedendo più via a racquistar salvezza, scorgendomi vicino all’ultime disgrazie mie, levato sospiro più alto, e rivoltomi con atto angoscioso al cielo, a dir cominciai: O dii celesti, soccorrete una volta alle mie pene! E tu, dura Fortuna, finisci ornai d’incrudelire, ché sacrificato abbastanza con questi tormenti miei sventurati ti fu!

 

 Allora un amico per età garbatello e del tutto ingegnosetto, perché avessi sollievo si accostò.




Suvvia, disse; e proseguendo, con ragionari molti e prolissi, perorando nel nome vostro sacratissimo s’imbatté, affermando poter io metter fine alle disgrazie mie, qualora la copia delle vostre parole gustassi; ed egli per farmi del merito vostro più certo, essendone io già sicuro, soggiunse: Conobbilo in Avignone, giovine in seno alle Muse dalle mani di Giove educato, del latte di filosofia nodrito, e colle scienze divine fatto robusto, e lì, quasi discepolo del sacro Vaso d’elezione rapito già al terzo cielo glorioso, aperte svela recondite ed arcane dottrine.

 

Egli è pur desso, cui pennuta fama per bocca de’ suoi portatori divulga, l’adornano i costumi, e le virtudi il circondano. Egli è fatto ingegnosissimo da Saturno; placido e ricco da Giove; guerriero, contra i vizi che uccide, da Marte; luminoso, regale, affabile per tutti da Apollo; giocondissimò da Citerea; dal coppiere de’ numi matematico e formale; da Ecate umilissimo ed onesto. Ed è monarca per l’eccellenza nelle arti: in grammatica Aristarco, in dialettica Ockam, in retorica Tullio ed Ulisse, in aritmetica Giordano, ad Euclide pari in geometria o sèguita il siracusano Archimede, nella musica Boezio, in astrologia risuscita Tolomeo d’Egitto.




Che più? moralizza qual Seneca, nell’operare moralmente Socrate seguitando, e nelle storie scolastiche ottimo Comestore. Le quali cose avidamente bevendo io, lasciati i lacrimosi sospiri, mi diedi pace; e poco dopo ripresi a dire: Sì, che mi assisterà egli, presidio della libertà, della salvezza mia, se saprò l’operazioni sue indagare. Ah ch’io possa, per mezzo di tanto venerabil persona, che qual fenice ha la sua monarchia oltre monti, giugnere a debellare le miserie della fortuna, l’angustie d’amore, e spogliarmi d’ogni rusticità, conoscendomi un misero, un rozzo, un inerme ed inerte, crudo insieme ed informe, dal padre di Giove fatto deforme, povero da Iperione, litigioso da Gradivo, pusillanime da Delio, da Diona sporchissimo dioneo, da Cillenio balbuziente, e guercio e sozzo con turpitudine da Lucina.

 

Or dunque affettuosamente vi prego che, per via della vostra risposta, io possa la consolazione perduta riacquistare, e insieme ornare il capo d’elmo apollineo, la sinistra dello scudo pallanteo, e dell’asta di Minerva la destra, nuotare nei filosofici abissi, speculare del cielo Empireo il re, più nitidamente nell’inferno Plutone scorgere, e le stelle nell'etere trasparente scintillanti, e intendere uniforme del Primo Mobile la sostanza omogenea, e la Gorgone con la spada vostra tagliare.




Aspetto dunque da scolare devoto, benevolo, attento, la dottrina di maestro cotanto, per mezzo di cui spero che l’inerte mia mole e indigesta, e l’ignoranza mia grandissima saranno disciolte qual nebbia, ed in tenuità maravigliosa si muteranno; spero d’ottener presto quel che domando; e già cominciai devotamente a digiunare la vigilia di sì gran festa. Che se credessi un non voglio dalle vostre labbra venir fuori, in lacrime presto mi disfarei, novello Narciso.

 

Mi accorgo d’aver molte cose detto, in modo volubile insulsamente chiacchierando e fuori loco, arrogandomi ufizio non mio, ché non è da me il dettare: per lo che meriterei d’essere in istatua marmorea trasformato. Nondimeno l’ho fatto nella fiducia verso tanto maestro, aspettandone le debite riprensioni in quel che bisogna. Bramo che stiate bene.

 

Dalle falde del monte….ecc.

 

Vostro in ogni cosa GIOVANNI ecc...









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