CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

giovedì 11 ottobre 2012

IO POVERO PAGANO (3)














Precedenti capitoli:

io povero pagano 2 &

io povero pagano









Quando le braccia gli crollarono per la fatica e ubriaco di stanchezza sentì la
testa che gli girava, Ivan scese dall'albero e si coricò nella neve.
Tutto taceva attorno a lui.
Solo il fischio del vento faceva stormire il bosco.
Allora, nel buio che si stringeva sempre più, Ivan rivide il bambino.
Da tanto tempo non veniva a trovarlo. Come aveva fatto a seguirlo fin lì?
Ivan avrebbe voluto chiederglielo. Ma sapeva che gli spiriti non possono par-
lare. Bisogna guardarli a lungo in silenzio per capire cos'hanno da dire.
Ivan pensò alla foresta lontana, alla sassaia in cima al torrente, alla sua gente
prigioniera d'un altro mondo.
Non avrebbe dovuto abbandonarli.
Avevano bisogno di lui.
Olga gli aveva promesso che lo avrebbe riportato a casa.
Ma dov'era Olga?





















Perché lo aveva abbandonato in quella città cattiva? E dov'era la grande, an-
tica tribù di cui era fratello?
Ivan sentì smarrita per sempre la strada che dai boschi saliva oltre il lago fino
alla tundra, fino alle cime rotonde della Byrranga, che hanno il profilo d'una
testa di cervo e due spuntoni di roccia come orecchie di lepre.
La terra dove per poco tempo era stato felice, dove l'ombra di suo padre lo
accompagnava sempre, prendendo le forme di un albero o di un orso silenzio-
so e la sua voce gli parlava direttamente nel cuore.
Nuove raffiche d'un vento più forte arrivavano dal largo.
L'immensità del mare era un deserto opaco, ma una liquida luce si sprigionava
a tratti dalle creste vitree delle onde.
Il bambino era scomparso.
Ivan adesso sapeva cosa era venuto a dirgli.
Doveva tornare indietro. Prima che fosse troppo tardi, prima che la voce della
sua gente sprofondasse per sempre nell'ululato dei lupi.






















Accoccolato contro il tronco del pino, Ivan aspettò che fosse buio pesto.
Forse dormì, forse svenne per la stanchezza. Lo risvegliò un rotolio di frantu-
mi ghiacciati.
La bufera s'era placata.
Il vento del Nord aveva scacciato le nubi e ora l'aria era limpida.
Lontano, oltre la striscia dura del mare, le luci della città scioglievano le tene-
bre in una pozzanghera verdastra. Ma dall'altra parte, verso il largo, il ghiaccio
intatto prendeva il colore del quarzo e subito affondava nell'oscurità più densa.
Un abisso di fragili stelle senza luce si era spalancato nel cielo e sembrava che
di là venisse l'alito gelido che paralizzava ogni cosa.
Ivan costeggiò il recinto e raggiunse le serre. Grattò sul vetro per vedere dentro,
ma era buio pesto. Più oltre c'era il ristorante. Alcune luci azzurre lungo i mu-
ri illuminavano le sedie deposte sopra i tavoli, la catasta degli ombrelloni e delle
sdraio ammucchiate contro la veranda.



























Ivan seguì la fila dei lampioni e vide in lontananza una finestra illuminata.
Con una mano nel sacchetto delle patatine, il custode seduto in poltrona beveva
da un barattolo di birra aspettando la partita di hockey alla televisione. Si era
tolto le scarpe, aveva appoggiato i piedi davanti alla stufa e sfregava piacevol-
mente gli alluci uno contro l'altro.
Ivan passò alla larga, evitò il fanale che illuminava l'entrata della guardiola e
sprofondò nell'ombra di un caseggiato basso. Spinse per caso una porta e si
ritrovò in un magazzino di attrezzi. Raccolse un'ascia, un coltello e alcune corde.
Infilò tutto nel suo sacco e uscendo prese anche gli sci di fondo che il custode
aveva messo al riparo dietro l'uscio.
Così equipaggiato tornò verso il recinto.
Ognuno era illuminato all'entrata da un piccolo faro.
Per primi liberò i lupi.



















Sentendo qualcuno avvicinarsi alla rete, non la smettevano di ululare.
Ma quando il catenaccio si aprì, corsero muti verso il cancello e si fermarono
intimoriti davanti a Ivan. Annusavano inquieti l'aria, come se temessero una
trappola. Abbassando le orecchie, scivolarono fuori di soppiatto. Non si
allontanarono subito.
Con la coda dell'occhio rimasero per qualche attimo a spiare il pagano rin-
ghiando.
Poi i loro fiati bianchi scomparvero nel buio.
I guanachi si muovevano in branco, e uno guardava per tutti. Scoprirono che
il cancello era aperto solo quando Ivan aveva già raggiunto il recinto dei panda.
Corsero fuori allungando il collo. Passarono fuori davanti alla finestra del custode
esitando perplessi prima di galoppare via verso il largo.
Quando Ivan spaccò il vetro del loro padiglione illuminato al neon, i babbuini
lanciarono un grido corale e scapparono tutti in cima all'albero spelacchiato che
cresceva nel centro del recinto.

















Davanti al recinto delle renne, Ivan si fermò.
Scelse in un'aiuola due giovani tronchi di betulla e li abbatté con l'ascia. Misurò
due lunghezze, ne fece due stanghe, le stese per terra e vi fissò sotto gli sci del
custode. Poi tagliò sei traverse più corte che legò alle stanghe con la corda per
fare una slitta. Con un ramo ricurvo costruì un collare da traino che attaccò al-
le due estremità dei tiranti.
Quando tutto fu pronto, aprì il cancello, scelse le due bestie più robuste e le
aggiogò alla slitta.
Caricò le sue cose, raccolse un lungo ramo sottile e ne ricavò una frusta .....e
le guidò verso la grande...foresta.....
(D. Marani, L'ultimo dei Vostiachi)












  


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