lunedì 30 luglio 2018
L'ABISSO DEL FILOSOFO (precipitato nella ...) (4) (79)
Precedente capitolo:
Il magico tellurico mondo degli Dèi antichi (3)
Gente di passaggio: Sancio Panza (78)
Prosegue in:
L'abisso del Filosofo (5) (80) &
La casa dell'alchimista (3/4)
Un oggetto riportato dall'Italia pendeva al muro della stretta anticamera.
Era uno specchio fiorentino su una cornice di tartaruga, formato da una
ventina di specchietti convessi simili alle celle esagonali delle arnie, ognu-
no contenuto a sua volta nella sua stretta cornice che era stata un tempo
la lorica d'una bestia viva.
Al chiarore grigio d'un'alba parigina Zenone vi si mirò.
Vi scorse venti facce compresse e rimpicciolite dalle leggi dell'ottica, venti
immagini d'un uomo in copricapo di pelliccia, dalla carnagione smunta e
giallastra, dagli occhi lustri che erano essi stessi specchi.
Quest'uomo in fuga, rinchiuso in un mondo tutto a parte, separato dai suoi
simili che fuggivano anch'essi in mondi paralleli, gli ricordò l'ipotesi del gre-
co Democrito, una serie infinita di Universi identici ove vivono e muoiono
una serie di Filosofi prigionieri.
Questa fantasticheria lo fece sorridere amaramente.
I venti piccoli personaggi dello specchio sorrisero anch'essi, ognuno per
conto suo.
Li vide poi volgere a metà il capo e dirigersi verso la porta.
L'ABISSO (del filosofo)
A poco a poco, come colui che assorbendo ogni giorno un determinato
alimento finisce per esserne modificato nella sostanza e perfino nella for-
ma, ingrassa o dimagrisce, trae da quella pietanza vigore o contrae nell'-
ingerirle mali che non conosceva, mutamenti quasi impercettibili si ope-
ravano in lui, frutto di nuove abitudini.
Ma la differenza tra ieri e oggi si annullava appena vi posava lo sguardo:
esercitava la medicina filosofica come aveva sempre fatto e non faceva
la minima differenza se curava straccioni o principi.
Sebastiano Theus (come Pietro Autier) era un nome di fantasia, ma nep-
pure il suo diritto a chiamarsi Zenone era molto chiaro.
Non habet nomen proprium: era di quegli uomini che fino alla fine non
cessano di meravigliarsi di avere un nome, come chi passando davanti
a uno specchio si stupisce d'avere un volto e precisamente quello.
La sua esistenza era clandestina e perseguitata e sottoposta a determi-
nate costrizioni: lo era sempre stata (da secoli...).
Taceva i pensieri che per lui contavano di più, ma sapeva da lunga da-
ta che chi si espone per quel che dice e pensa è uno sciocco, e per que-
sto sarà eternamente perseguitato, specie se poi dice e narra la veri-
tà...
I suoi rari sfoghi verbali non erano mai stati altro che l'equivalente del-
le dissolutezze d'un uomo casto.
Viveva rinchiuso nell'ospizio di San Cosma, prigioniero d'una città e
(dell'ignoranza..) in quella città d'un quartiere, e in quel quartiere d'u-
na mezza dozzina di camere affacciate da un lato sull'orto e le dipen-
denze del convento, dall'altro su un muro nudo.
I suoi vagabondaggi, ben poco frequenti, in cerca di campioni botani-
ci, passavano e ripassavano per i soliti campi arati e gli stessi sentieri
lungo il fiume, gli stessi boschetti e il margine delle dune, e sorrideva
non senza amarezza di quell'andirivieni da insetto che incomprensibil-
mente si aggirava su un palmo di terra.
Ma avviene sempre che lo spazio si riduca, gli stessi gesti si ripetano
quasi meccanicamente ogni volta che si imbrigliano le proprie facoltà
in vista d'un compito solo limitato e utile.
La vita sedentaria l'opprimeva come una sentenza d'incarcerazione
che per prudenza avesse pronunciato si se stesso; ma la sentenza e-
ra tuttora revocabile; già altre volte e sotto altri cieli si era sistemato
così, momentaneamente, o, credeva per sempre, come chi ha diritto
alla cittadinanza ovunque e in nessun luogo.
Nulla garantiva che l'indomani non avrebbe ripreso l'esistenza erran-
te che era stata la sua sorte e la sua scelta. Eppure il suo destino si
muoveva: vi si produceva a sua insaputa uno slittamento. Come av-
viene a chi nuota contro corrente nel buio della notte, gli mancavano
i punti di riferimento.
Ancora di recente, ritrovando la via nel labirinto dei vicoli di Bruges,
aveva creduto che quella tappa in disparte dalle strade maestre dell'-
ambizione e del sapere gli avrebbe procurato un po' di riposo dopo
trentacinque anni di agitazioni.
Si riprometteva di assaporare la sicurezza inquieta d'un animale che
si sente al sicuro nella tana angusta e buia ove ha scelto di vivere. Si
era sbagliato.
Quell'esistenza benché immobile ribolliva; il senso d'una attività qua-
si terribile rombava come un fiume sotterraneo. L'angoscia che lo
serrava era diversa da quella del filosofo perseguitato per i suoi libri.
Il tempo, che s'era immaginato dovesse pesargli tra le mani come un
lingotto di piombo, fuggiva e si scomponeva come gocce di mercu-
rio.
Le ore, i giorni, i mesi avevano cessato di corrispondere ai segni de-
gli orologi e perfino ai moti degli astri. Talvolta gli pareva d'esser ri-
masto tutta la vita a Bruges, talaltra d'esservi ritornato il giorno prima.
Anche i luoghi si muovevano: le distanze si annullavano come i gior-
ni. Quel macellaio, quel venditore che gridava le sue misere mercan-
zie avrebbero potuto benissimo trovarsi ad Avignone o a Vadstena;
quel cavallo frustato l'aveva visto accasciarsi nelle vie di Adrianopo-
li; quell'ubriaco aveva cominciato a Montpellier la sua imprecazione
o il suo getto di vomito; il bambino che vagiva nelle braccia della
nutrice era nato a Bologna venticinque anni prima; la messa domeni-
cale cui non mancava mai di assistere, ne aveva inteso l'Introito in
una chiesa di Cracovia cinque anni prima....
(M. Yourcenar, L'opera al nero)
(Prosegue....)
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