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L'industria anarchica (3/1) &
Castità & Purezza (15/1)
Prosegue in:
....Avversi al Sogno nominato vita.... (17)
Ero appena tornato in quella specie di città densa di fumo misto ad olio
fritto che si chiama Londra… ve lo ricordate?, dopo anni di Oceano Indiano,
Pacifico, mari della Cina - una buona dose di Oriente, sei anni o poco meno – e
bighellonavo qua e là, impedendovi di lavorare e invadendo le vostre case,
proprio come se avessi ricevuto dal cielo la missione di civilizzarvi. Per un
po’ andò benissimo, ma ben presto cominciai ad averne abbastanza di stare a
riposo. Allora mi misi a cercare una nave: penso che sulla terra non ci sia un
lavoro più ingrato. Ma le navi non sapevano cosa farsene di me. E anche quel
gioco finì con lo stancarmi.
Dovete sapere che, quand’ero un ragazzino, avevo la passione per le
carte geografiche. Passavo delle ore a guardare l’America del sud, o l’Africa o
l’Australia, e mi perdevo in tutte le glorie dell'esplorazione. A quei tempi c’erano
molti spazi vuoti sulla carta della terra, e quando ne vedevo uno dall’aria
particolarmente invitante (ma ce l’hanno tutti quell’aria) ci posavo il dito
sopra e dicevo: ‘Quando sarò grande, ci andrò’.
Il Polo Nord era uno di quei luoghi, mi ricordo. Non ci sono ancora
stato e non mi ci proverò certo adesso. L’incanto è finito. Altri di quei luoghi
erano disseminati intorno all’Equatore, alle più diverse latitudini su tutti e
due gli emisferi. In qualcuno ci sono stato, e... beh, non è di questo che
voglio parlarvi. Ma ce n’era uno ancora, il più grande, il più vuoto, se così
si può dire, dal quale ero particolarmente attratto.
È vero che nel frattempo non era più uno spazio vuoto.
Dalla mia infanzia, si era riempito di fiumi, di laghi, di nomi. Non
era più una macchia bianca deliziosamente avvolta nel mistero, un terreno
vergine su cui un ragazzo potesse fare i suoi sogni di gloria. Era diventato un
luogo di tenebra. Ma là dentro c’era soprattutto un fiume, un fiume possente,
che sulla carta si snodava come un gigantesco serpente, con la testa nel mare,
il corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del
continente. E mentre io guardavo la carta nella vetrina di un negozio, lui mi
affascinava, come un serpente affascina un uccello, un povero stupido
uccellino. Mi ricordai allora che c’era una grossa impresa, una
Compagnia che commerciava su quel fiume.
Diamine, mi dissi, non potranno commerciare senza usare una qualche
specie di imbarcazione su tutta quella massa d’acqua dolce - i battelli a
vapore! Perché non tentare di farmene affidare uno?
Camminavo avanti e indietro per Fleet Street senza riuscire a scuotermi
l’idea di dosso. Il serpente mi aveva incantato. Si trattava in realtà di un’impresa
continentale, la Compagnia commerciale, ma io ho molte conoscenze nel
Continente; vivono lì, perché, a sentir loro, costa poco e non è così
sgradevole come sembra. Devo purtroppo ammettere che incominciai a scomodarle.
Già questa era una novità per me. Non è mia abitudine ricorrere a questi
sistemi per ottenere quello che voglio, sapete. Son sempre andato per la mia
strada, e con le mie gambe, dove avevo in mente di andare. Non avrei mai
creduto di esserne capace, ma, vedete, avevo proprio l’impressione che lì ci
dovevo andare, a qualunque costo.
Così li scomodai.
Gli uomini mi dissero ‘Carissimo’ e non fecero nulla.
Allora, ci credereste?, provai con le donne. Sì, io, Charlie Marlow
misi le donne all’opera per avere un lavoro. Dio santo! Ma capite, era l’idea a
trascinarmi. Io avevo una zia, una tenera anima entusiasta.
Mi scrisse: ‘Con immenso piacere. Sono pronta a fare qualsiasi cosa,
proprio qualsiasi cosa per te. La tua è un’idea straordinaria. Conosco la
moglie di un personaggio molto in vista nell’Amministrazione e anche un signore
che ha molta voce in capitolo...’, ecc., ecc.
Era decisa a smuovere mari e monti per farmi nominare capitano di un
vapore fluviale, se questo era il mio desiderio. Naturalmente ottenni il posto,
e anche rapidamente. Pare che la Compagnia fosse venuta a sapere che uno dei
suoi capitani era stato ucciso in una rissa con gli indigeni. Fu questa la mia
occasione, che mi rese ancor più impaziente di partire. Solo dopo molti mesi,
quando cercai di recuperare ciò che restava del corpo, seppi che all’origine
della questione c’era stato un malinteso per delle galline.
Sì, per due galline nere!
…Corsi come un matto per essere pronto in tempo e, meno di quarantott’ore
dopo, attraversavo la Manica per presentarmi ai miei datori di lavoro, e
firmare il contratto. In pochissime ore arrivai in quella città che mi fa
sempre pensare a un sepolcro imbiancato. Un pregiudizio, certo.
Non mi fu difficile trovare gli uffici della Compagnia.
Era la cosa più notevole della città ed era sulla bocca di tutti quelli
che incontravo. S’accingevano a gestire un impero d'oltremare e a trarne una barca
di soldi con il commercio.
Una strada stretta e deserta, sprofondata nell’ombra di alte case,
piene di finestre, con le persiane chiuse, un silenzio mortale, l’erba che
spuntava fra le pietre, imponenti portoni a destra e a sinistra, immense doppie
porte che stavano faticosamente socchiuse. Mi infilai in una di queste fessure,
salii una scala spoglia e pulita, arida come un deserto, e aprii la prima porta
che trovai.
Due donne, una grassa e una magra, sedute su seggiole impagliate,
sferruzzavano della lana nera. La magra si alzò e venne dritta verso di me,
sempre sferruzzando, con gli occhi bassi, e proprio mentre pensavo di scansarmi
per lasciarle il passo, come si farebbe per un sonnambulo, lei si fermò e
sollevò lo sguardo. Indossava un vestito insignificante come il fodero di un ombrello.
Si voltò senza dire una parola e mi precedette in una sala d’aspetto.
Dissi il mio nome e mi guardai attorno. Un tavolo di abete nel mezzo,
seggiole comuni intorno alle pareti, su un lato una grande carta lucida,
segnata con tutti i colori dell'arcobaleno. Una gran quantità di rosso - sempre
bello da vedere, perché si sa che lì si lavora sul serio – un bel po’ di azzurro,
un po’ di verde, macchie di arancione e, sulla costa orientale, una chiazza violacea,
che stava a indicare il luogo in cui gli euforici pionieri del progresso bevono
l'euforizzante birra bionda. Ma io non andavo né qui né lì. Io andavo nel
giallo. Dritto nel centro. E il fiume era là, mortalmente affascinante, come un
serpente.
Ohi, ohi!
Una porta s’aprì, e comparve una canuta testa da segretario, ma con un’espressione
di compatimento, e il suo indice ossuto mi fece cenno di entrare nel santuario.
La luce era fioca, e una massiccia scrivania ingombrava il centro della stanza.
Dietro quel monumento si distingueva una pallida pinguedine in redingote.
Il grand’uomo in persona.
Poco più alto di un metro e sessanta, a quanto potei giudicare, teneva
in pugno le fila di chissà quanti milioni. Mi strinse la mano, se non mi
sbaglio, mormorò qualcosa, si dichiarò soddisfatto del mio francese. Bon voyage.
Passati quarantacinque secondi mi ritrovai nella sala d’aspetto con il
segretario compassionevole, che, afflitto e partecipe, mi fece firmare dei documenti.
Credo di essermi impegnato, fra l’altro, a non rivelare segreti commerciali. Beh,
non ho intenzione di farlo. Cominciavo a sentirmi un po’ a disagio. Sapete che
non sono abituato a questo genere di cerimonie, e nell’atmosfera c’era qualcosa
di sinistro. Come se mi avessero coinvolto in una cospirazione - non so - in
qualcosa di non proprio onesto; ed ero contento di andarmene.
Nell’anticamera, le due donne sferruzzavano febbrilmente la lana nera.
Arrivava gente e la più giovane andava avanti e indietro ad accompagnarla. La
vecchia restava seduta sulla sua sedia, con le ciabatte di stoffa appoggiate su
uno scaldino, e un gatto che le riposava in grembo. Portava sulla testa un affare
bianco, inamidato, aveva una verruca su una guancia e gli occhiali cerchiati d'argento
poggiavano sulla punta del naso. Mi diede un’occhiata da sopra le lenti. La placidità
sbrigativa e distaccata di quello sguardo mi turbò. A due giovanotti, che con
aria allegra e spensierata stavano seguendo la loro guida, lei lanciò la stessa
rapida occhiata di imperturbabile saggezza. Pareva sapesse tutto di loro e
anche di me. Mi invase una sensazione inquietante. Lei mi sembrava misteriosa e
fatale.
Spesso, quand’ero laggiù, ripensai a quelle due - le guardiane della
porta delle tenebre - che sferruzzavano la loro lana nera come per farne una
calda coltre funebre, una che accompagnava, accompagnava senza tregua verso l’ignoto,
l’altra che scrutava i volti allegri e spensierati con i suoi vecchi occhi
impassibili.
Ave! Vecchia sferruzzatrice di lana nera.
Morituri te salutant...
…Non restava che una cosa da fare: salutare la mia ottima zia. La
trovai trionfante. Mi offrì una tazza di tè - l'ultima tazza di tè decente per non
so quanto tempo - in una stanza che rispondeva nel modo più lusinghiero all’idea
che ci si fa del salotto di una signora.
Parlammo a lungo, tranquilli, vicini al camino…
Nel corso di quelle confidenze divenne evidente che ero stato descritto
alla moglie dell’alto dignitario, e Dio sa a quante altre persone ancora, come
un essere eccezionalmente dotato una vera fortuna per la Compagnia un uomo come non se ne trovano tutti i
giorni.
Dio santo!
Ed io che andavo ad assumere il comando di un vaporetto da quattro
soldi munito di un fischio da due. Risultava chiaro, però, che io ero anche uno
dei Pionieri, con la P maiuscola, capite. Qualcosa come un portatore di luce,
una specie di apostolo in formato ridotto. Proprio a quel tempo circolavano
sulla stampa, e nei discorsi, un mucchio di stupidaggini di questo tipo e
quella bravissima donna, che in mezzo a quelle frottole ci viveva, se ne era
lasciata travolgere.
Parlò di ‘distogliere quella massa di ignoranti dalle loro orribili
usanze’, tanto che alla fine, parola d’onore, riuscì a farmi sentire molto a disagio.
Provai ad accennare al fatto che la Compagnia agiva a scopo di lucro.
‘Tu dimentichi, caro Charlie, che ogni fatica merita una ricompensa’,
disse lei raggiante.
Straordinario che le donne siano
così lontane dalla verità. Vivono in un mondo che si costruiscono loro stesse,
che non c'è mai stato e non ci sarà mai. Troppo perfetto nel suo insieme e tale
che, se dovessero realizzarlo, non vedrebbe neanche un tramonto, crollerebbe
prima. A buttar giù tutto salterebbe fuori uno di quei maledetti fatti a cui
noi uomini siamo rassegnati sin dal giorno della creazione. Poi mia zia mi
abbracciò, mi raccomandò di portare la maglia di lana, di scrivere spesso,
ecc., ecc., e me ne andai.
Per strada, non so perché, ebbi la curiosa
sensazione di essere un impostore. Strana cosa che io, abituato a partire per qualsiasi
parte del mondo in meno di ventiquattr’ore, senza pensarci tanto quanto la
maggior parte degli uomini mette per attraversare
la strada, davanti ad una faccenda di ordinaria amministrazione come quella
possa aver avuto un momento, non dirò di esitazione, ma di pausa allarmata
davanti a questa impresa banale.
Non saprei spiegarmi meglio se non dicendo che, per un paio di secondi,
mi sentii come se, invece di partire per il centro di un continente, stessi per
avventurarmi nel centro della terra.
Mi imbarcai su un piroscafo francese, che fece scalo in ognuno di quei
dannati porti che loro hanno laggiù, al solo scopo, per quanto mi fu dato di
vedere, di sbarcarvi dei soldati e dei doganieri. Io osservavo la costa.
Osservare una costa mentre scivola via lungo la nave, è come riflettere su un
enigma. È là, davanti a voi, sorridente o accigliata, invitante, splendida o
mediocre, insipida o selvaggia, e muta sempre, ma con l’aria di sussurrare: ‘Venite
a vedere’. Quella era quasi informe, come ancora incompiuta, con un aspetto
ostile e monotono.
....Il limitare di una giungla colossale, di un verde così scuro da sembrare
quasi nero, orlato dal bianco della risacca, correva dritto, come tracciato con
la riga, lontano, lontano lungo un mare azzurro il cui scintillio era offuscato
da una foschia strisciante. Il sole era implacabile, la terra sembrava rorida e
luccicante per il vapore. Qua e là affioravano delle macchie di un grigio biancastro
raggruppate dentro la bianca risacca, con a volte una bandiera inastata:
insediamenti vecchi di qualche secolo, e non più grandi di capocchie di spillo
sull’intatta distesa di quell’immenso entroterra....
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