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Tra qualche anno quattro quinti della popolazione americana vivranno
nelle città. Le città sono, per noi tutti, centri di cultura, di moda, di
finanza e di industria, di sport e di comunicazione: sono perciò il crogiolo
del successo potenziale della vita e non solo americana. Ma esse sono anche il
crogiolo dei problemi della vita, e ripeto, non solo americana: miseria e odio
razziale, educazione insufficiente e insieme tutti gli altri mali della nuova
civiltà urbanizzata (congestione e sporcizia, pericolo e senso di inutilità)
che colpisce tutti salvo i più fortunati.
I problemi urbani si estendono molto al di là del centro delle città.
Un’espansione edilizia indiscriminata ha spinto i sobborghi ad invadere la
campagna e i trasporti, il rifornimento idrico, le attrezzature scolastiche e
sanitarie sono diventati insufficienti e i metodi di finanziamento previsti per
questi servizi essenziali sono risultati inadeguati.
Questo processo ha inquinato l’acqua ed avvelenato l’aria, e ci ha
privati del contatto con la luce del sole, con gli alberi, con i laghi. Mentre
il governo diviene sempre più inefficiente, nuovi organismi hanno proliferato,
disperdendo i compiti e le energie tra dozzine di uffici lontani e privi di
collegamenti fra loro. Gli individui hanno perso il contatto con le istituzioni
della società, e persino l’uno con l’altro subendo e provocando, in misura
sempre maggiore, indifferenza, crudeltà e violenza.
Nei prossimi quarant’anni la popolazione americana raddoppierà, e
raddoppieranno anche i nostri problemi. Dovremo costruire un numero di case, di
ospedali e di scuole pari a quelli che sono stati costruiti dalla nascita della
nazione. E, ciò che più importa, dovremo riuscire a trovare sufficiente spazio
per ognuno: dovremo pianificare insieme dove vivere e lavorare e divertirsi,
dove e come cominciare a ricostruire la nostra comunità, il luogo dove
l’individuo acquista il senso dell’importanza e del significato della sua vita
individuale e della sua partecipazione alla vita degli altri.
E’ un vasto compito.
Ma è il programma minimo che possiamo prospettarci perché le nostre
città siano luoghi degni e sicuri, ricchi di stimoli e di risultati: perché la
nostra società possa definirsi civiltà.
Il problema più pressante e immediato, quello che minaccia di
paralizzare le nostre capacità di agire e, insieme, di distruggere la nostra
visione del futuro, è quello delle condizioni di vita degli abitanti dei ghetti
e della violenza che hanno fatto esplodere: una violenza che va diffondendosi
in tutto il paese in una reazione a catena provocando terrore e collera e
lasciando dietro a sé morte e devastazione.
Oggi ci troviamo, e forse ci troveremo per parecchio tempo ancora, nel
mezzo di una crisi interna che sta diventando rapidamente la più terribile e
urgente che si sia verificata dall’epoca della guerra di secessione. Le sue
conseguenze si fanno sentire in ogni caso rendendoci consapevoli che un
fallimento in questa direzione potrebbe provocare il fallimento nella soluzione
di tutti gli altri problemi che la crisi delle città ci ha posti di fronte.
I passati tumulti e quelli che, come ben sappiamo, possono scoppiare da
un momento all’altro con estrema facilità, incombono come una intollerabile
minaccia per ogni americano nero o bianco che sia: una minaccia per la
tranquillità dello spirito, per la sicurezza fisica, per l’ordine della
società, per tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Non si può
permettere a pochi violenti di minacciare il benessere della maggioranza e le
loro speranze di progresso.
Chi incita altri ad incendiare e a saccheggiare deve subire in pieno il
rigore della legge. Che significa proprio questo: l’arresto e la condanna
immediata dei colpevoli. Checché ne dica Rap Brown, le strade dell’America non
sono le giungle del Vietnam. Tuttavia imporre il rispetto della legge non
significa autorizzare chi agisce in nome del governo a commettere assassini
insensati inutili, e neppure violenze inutili al pari dei violenti.
Una efficace tutela da parte della legge, inoltre, non è che il
principio. Non dobbiamo illuderci: condannare non significa prevenire. La
storia ci offre tanti esempi dei tragici risultati ottenuti da chi riteneva di
poter soggiogare la protesta e la disperazione con la forza. Se comprendere non
significa essere indulgenti, l’incomprensione è il passaporto più sicuro per
l’insuccesso. I disordini non sono crisi che si possono risolvere con la stessa
rapidità con cui si sono manifestate. Riflettono una situazione che ci ha
accompagnato per trecento anni e che oggi, sottoposta alla tensione della vita
moderna, si è intensificata.
E questo problema non si risolverà da solo!
Venti milioni di negri americani, cinque milioni di americani di
origine messicana, quasi tre milioni di portoricani e mezzo milione di indiani
sono una realtà. Gli ‘slums’ sono una realtà, come lo sono l’inattività forzata
e la miseria, la mancanza di istruzione e le case decrepite. Le prospettive
frustrate e le speranze deluse sono una realtà. E sono una realtà che non si
possono ignorare soprattutto la consapevolezza dell’ingiustizia e
l’appassionato bisogno di eliminarla.
Perciò abbiamo due alternative: o impegniamo la nostra immaginazione,
la nostra dedizione, la nostra saggezza e il nostro coraggio per affrontare
queste difficoltà e lottiamo per superarle, oppure voltiamo loro le spalle,
provocando repressioni, sofferenze sempre maggiori, guerra civile e
trasmettendo ai nostri figli un problema assai più terribile e minaccioso.
Siamo in grave pericolo: il pericolo di approfondire la divisione tra i
bianchi e non solo i neri, ma con tutte quelle minoranze che come i neri si
trovano ora a soffrire medesime condizioni, il pericolo comunque che la comune
paura produca risentimento, il risentimento divenuto non solo ostilità ma anche
odio il quale non deve essere nutrito con ugual odio approderemo ad una
involuzione distruttiva.
Perché viviamo in mondi diversi e abbiamo davanti agli occhi paesaggi
diversi. Per la maggioranza bianca, per chi ha una coscienza civile e morale,
il mondo nero sembra progredire in modo continuo e regolare. Nel giro di pochi
anni ha assistito allo smantellamento dell’intera struttura della legislazione
discriminatoria. Ha udito i presidenti farsi portavoce della giustizia razziale
e ha visto i negri americani entrare nel governo, nel senato, nella corte
suprema ed in ultimo divenire Presidenti.
Ma ciò sembra non essere servito a nulla!
L’americano bianco ha pagato tasse per finanziare programmi educativi e
riforme sanitarie e combattere la miseria, ha visto i suoi figli rischiare la
vita per iscrivere i negri nelle liste elettorali del Mississippi.
E domanda: PERCHE’ TANTA INSODDISFAZIONE NONOSTANTE I PROGRESSI
RAGGIUNTI?
Ma se guardiamo con gli occhi del giovane abitante degli ‘slums’ – il
negro, il portoricano, il messicano – la visione appare ben differente, il
mondo diviene un luogo veramente senza speranza. E’ molto probabile che egli
sia nato da una famiglia priva di un padre, perché quella di una famiglia
distrutta è spesso la condizione richiesta dai regolamenti perché venga
accordato un asilo e un sussidio.
La sua probabilità di morire nel primo anno di vita è doppia di quella
dei bambini nati fuori del ghetto. E poiché sua madre va dal medico raramente,
le sue probabilità di essere un ritardato mentale sono sette volte maggiori
della media generale. E’ probabile che passi l’infanzia in una o due stanze
affollate da adulti, prive di servizi o di riscaldamento, con i topi come
compagni notturni. Frequenta una scuola che non gli insegna nulla di utile per
affrontare un mondo ostile. Le probabilità di diplomarsi sono tre su dieci; e,
se passa gli esami, ha soltanto il 50% di probabilità di possedere un livello
di istruzione che effettivamente equivalga al titolo ottenuto.
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