CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

domenica 10 ottobre 2021

IL RACCONTO DELLA DOMENICA, ovvero, La Sposa (dell'Aria)

 
























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di Domenica  (dopo la rivolta)


Prosegue con la...:


Seconda parte (8/10 ottobre).... 









Che pallone formidabile è la Stella! Uno sferico che all’equatore misura quindici metri e fa invidia a molti del raduno di Milano. È imponente, uno spettacolo! Una gemma del cielo.

 

Forma perfetta, armoniosa, morbida. È di seta bianca.

 

Bianca per non attirare i raggi solari e limitare il surriscaldamento del gas. La seta appare sotto forma di grandi spicchi cuciti tra loro con un particolare punto di rinforzo che Charbonnet ha curato personalmente dando poi istruzioni alle operaie giù in Officina. Ed è ricoperta da uno strato di specialissima vernice grassa, diluita con liquido volatile, di resina e olio di lino cotto.

 

Questo formidabile trattamento, ripete spesso Charbonnet al signor Botto durante le loro infinite discussioni nel deposito dell’officina, consente alla Stella, anche senza guttaperca, di disperdere soltanto quattordici litri per metro quadrato ogni ventiquattr’ore!




Il gas è altamente volatile, ma la seta della Stella riesce a trattenerlo a dovere. Qualità importantissima per coprire voli di lunga distanza, come al famoso raduno di Milano.

 

“In volo, durante il raduno,”

 

spiega Charbonnet ai conoscenti che lo interrogano sulle sue peripezie in cielo,

 

“in genere non ci si perde in visioni poetiche, tanto meno in futili chiacchiere. Si sale e si va, sperando nel vento. Non è uno scherzo, credetemi. Col variare della temperatura, quando cala la notte o quando si entra o si esce dal cono d’ombra delle nuvole, gli equilibri aerostatici immancabilmente si rompono e allora il pallone varia il proprio assetto nell’aria. Se la Stella acquista quota, si agisce sulla valvola tirando l’apposita fune che sale verticalmente dalla navicella e si fa fuoriuscire del gas. Se invece la Stella scende, è necessario gettare subito zavorra. Di notte, di giorno, senza sosta, con continue correzioni per mantenere l’equilibrio. No, non è uno scherzo!”




Le notti in volo sono fredde, silenziose: solitudine all’estremo. Niente può rivelare dove ci si trova, se non le rare luci di qualche paese lontano, che appaiono come fari su isole perdute nel mare nero della campagna.

 

La Stella, da sola, pesa pressappoco quanto un cavallino di piccola taglia – due quintali –, ma può portare fino a sei persone in una volta. Cinquanta chili è il peso della rete, ai quali bisogna aggiungere gli altri settanta della navicella con funi e cerchio. E anche il peso dell’ancora e della guiderope, l’ingombrante corda di ancoraggio. Dunque, un carro da trasporto è appena sufficiente a spostare il pallone disarmato.

 

Poi però c’è anche la sabbia asciutta necessaria al riempimento dei sacchetti di zavorra. E se in loco non la si trova, bisogna farla arrivare da qualche cantiere edile. Ma dev’essere un buon cantiere, perché non tutta la sabbia è uguale. Quella per la Stella non può contenere pietrisco, tanto meno sassi, molto rischiosi per chi si trova a terra.




In quell’appendice pendula abbandonata alla gravità e all’incognita dei venti – così da non sapere mai dove si atterrerà –, c’è per Charbonnet un misto di razionalità e di poesia che sfocia in un frenetico desiderio di ritornare sempre a volare. Il volo, per lui, significa soprattutto “travalicare le contingenze di ogni giorno”.

 

Lassù non ci sono regole, c’è la libertà del vento; non esistono leggi, se non quelle della termodinamica. E poi c’è anche la vera mistica del volo: il volo è un’arte incorporea, evanescente, come la danza. “Sì, come la danza!” gli fa eco Botto, che di piroette e coreografie se ne intende, dopo anni alla Scuola Ginnica Ernesto Ricardi di Netro.

 

Lassù si raggiungono punti di vista che permettono di abbattere le barriere dell’immaginazione, e con un solo colpo d’occhio di afferrare l’insieme delle cose: così pensa Charbonnet. In fondo, non avevano fatto così anche i padri dell’Encyclopédie, un secolo prima, a Parigi?




Su uno scaffale, a portata di occhi e di mano, avevano immaginato di raccogliere l’intero universo, tutto lo scibile umano. Guardare la sfera terrestre da lassù non è molto diverso, secondo Charbonnet.

 

Appesi al gas sopra duemila metri di aria.

 

Tutti i sensi all’erta. Lanciarsi con lo sguardo dalla cesta di vimini e avere ogni cosa sotto i propri occhi. Sopra tutte le miserie del mondo. E, sempre più estraneo, come ripete Charbonnet, “alla prospettiva dell’angolino”.

 

Un vago sorriso spunta sulla bocca di Annetta, a sentir ripetere quella parola, “angolino”.




 Tra la polvere e nel centro del piazzale transennato con migliaia di persone che aspettano l’inizio dell’incredibile viaggio di nozze, sotto il cielo azzurro, ampio, caldo, invitante, senza vento, pulito, e inarcuato come in un grande abbraccio, si stavano affrontando gli ultimi preparativi per il volo della Stella.

 

La lunga manica flessibile del gas serpeggiava sulla spianata congiungendo la cisterna all’appendice del pallone. Come una grossa proboscide, la manica di collegamento risucchiava il gas illuminante e lo sputava nella pancia della Stella. Era la vita che entrava nel pallone.

 

E il pallone respirava. Più aspirava, più si gonfiava, e si tendeva, levitando e disponendosi in assetto di volo.

 

Così, lenta, proseguiva l’operazione.




Gli spettatori stringevano le labbra e socchiudevano gli occhi, fantasticando sulla potenza che stava dilatando i fianchi della Stella. Finché l’equatore, tutti i meridiani, i paralleli della rete entrarono in trazione e la seta bianca premette rigonfiandosi tra le maglie della rete.

 

Ora la Stella cominciava a tirare sui cavi di imbrigliamento della navicella. Voleva già salire. Tirava sulle funi di sospensione, su quelle più leggere di manovra, sul cavo di ritegno del pallone. Mentre dall’equatore scendevano, tutt’intorno allineate, le corde agganciate alle catenarie d’ormeggio.

 

Annetta osservava paziente come la propulsione del gas determinasse la metamorfosi del pallone. Da dietro il velo di trine calato sugli occhi vedeva la scena avvolta da una luce morbida, buona.

 

Charbonnet camminava in mezzo al piazzale con le mani intrecciate dietro la schiena e sapeva che non mancava molto al momento del decollo.




Li farò impazzire, pensò, altro che applausi, grideranno fra un po’. Se solo sapessero che cosa li attende...

 

Ma la folla ora si era fatta meno chiassosa. I “Viva gli sposi” erano cessati da un pezzo. Si coglieva già una certa impazienza. I giornalisti facevano gruppo. Anche Salvo della “Gazzetta di Torino” si trovava tra la calca, d’altronde lo aveva promesso allo sposo che si sarebbe fatto vivo al momento giusto. Ostentava un’aria indifferente, ma in segreto si compiaceva di essere stato lui a intervistare Charbonnet in esclusiva. Indossava il solito completo principe di Galles con la pochette, portava una bombetta e aveva una copia della “Gazzetta” sotto il braccio.

 

L’attesa cresceva. Era palpabile, amplificata da migliaia di sguardi impazienti.




Annetta, impassibile, sedeva in fondo sulle transenne di legno. La mano in quella della mamma. Il suo elegante sposo, accanto al signor Botto e a Costantino, stava terminando nella polvere le ultime operazioni. Si muovevano rapidi, governando il grande tubo che penetrava nel pallone, e organizzavano la zavorra e i cavi di ormeggio.

 

Costantino correva da uno all’altro per prendere ordini.

 

Il signor Botto dirigeva gli uomini di fatica addetti alle catenarie di ormeggio e osservava con aria di approvazione.

 

Era passata un’ora dall’ingresso del corteo nuziale nel Gazometro e lo sferico finalmente si stagliava in tutta la sua energia esplosiva. Bianco e tirato, contro il cielo di metà pomeriggio.




Adesso i cavi vibravano sotto sforzo. La seta era tesa, dilatata e gonfia, proprio come quella dell’abito bianco sul petto di Annetta.

 

Con gli ultimi sbocchi di gas, il pallone emise un sibilo basso che si propagò per tutto il Gazometro. Era pronto. Quello era il segnale.

 

Annetta fu la prima a capire che il momento stava per arrivare. Si guardò intorno e sorrise.

 

Quando vide Charbonnet camminare lentamente verso le transenne ne ebbe la conferma. Sentì che dalla folla si era alzato un brusio.

 

Le dame dietro il primo recinto con le loro raffinate toilette, i bambini eccitati, i signori incuriositi, e più lontano, dietro gli elegantoni, il chiassoso popolo di seconda classe, tutti mossero qualche passo in avanti.




La folla premeva.

 

Charbonnet stava arrivando da lei.

 

“Vai, tesoro,” sussurrò la madre con un sorriso d’incoraggiamento.

 

“Sì, vado.”

 

Si alzò di scatto. Poi lentamente guardò la folla.

 

“Quanti sono!, tantissimi!” sussurrò tra sé.

 

“Su, vai.”

 

“Sì.”

 

Si sollevò il velo di trine e sfiorò la guancia della madre con un bacio. Le due donne si guardarono negli occhi.

 

“Vado, allora.”




Charbonnet era arrivato da lei.

 

E alle quattro e venti di domenica 8 ottobre 1893, Santa Reparata, con il marito, l’ammiraglio dell’aria Giuseppe Charbonnet che le sorrideva porgendole il braccio, Annetta si fece il segno della croce.

 

Deglutì. Allungò la mano e con il suo sposo iniziò a camminare.

 

Attraversarono sorridendo i trenta metri di terra battuta che li separavano dalla Stella. Lo sbuffo dell’ampia gonna seguiva le forme perfette di Annetta. Il cuore le batteva sempre più forte, la bocca era secca. Non riusciva più neppure a deglutire.

 

“Viva gli sposi! Viva gli sposi aeronauti!”




“Stai calma,” si disse.

 

Percorse tutti i trenta metri camminando come su una passerella d’onore e arrivò vicinissima al pallone.

 

Charbonnet si tolse il cappello da ammiraglio. Fece un profondo inchino verso di lei. Poi verso il pubblico.

 

Prese in braccio Annetta. La sentì leggera. Le sfiorò con le labbra le guance profumate e la posò dentro la cesta di vimini.

 

“Oplà,” gli sussurrò lei nell’orecchio.




 Ci fu un applauso.

 

Il capitano della Stella ringraziò con un altro inchino.

 

Poi si fece serio. Dopo aver rivolto un cenno agli aiutanti, a uno a uno, infilò il piede destro nell’apposito appoggio sul fianco della cesta. Con un lungo passo montò in equilibrio sul bordo e, tenendosi alle corde, si fece scivolare all’interno.

 

“Sì. Tutto a posto,” disse tra sé con un impercettibile movimento delle labbra. Si girò di nuovo verso la folla. E gli spuntò un ghigno furbesco, da prestigiatore che si esibisce nel trucco più riuscito.


(Prosegue...)











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