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di corsa...
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...Colgo l'occasione
all'invito
della lettura del
del buon... Francesco...
Questa
raccolta di indicazioni che il sottoscritto come taluni viandanti hanno
dedicato agli eremi francescani risponde a quanto scriveva nel 1905 Paul Sabatier nella prefazione al volume di Beryl de
Selincourt:
Nessuno può sperare di conoscere san Francesco
senza conoscere e amare i luoghi in cui visse.
Profondi
conoscitori della meandrica topografia francescana, questi viandanti
appartenenti a nazionalità e a confessioni diverse, hanno riscattato dall’oblio
gli eremi appenninici i quali, non potendo contare sulla santità consacrata
della Verna, avevano una risonanza puramente locale, o versavano in totale
abbandono.
Spesso le vie d’accesso contribuiscono a rendere periglioso il viaggio che si ammanta di una vivace aneddotica, sia che ci si inerpichi verso le Carceri con il mulo riottoso del pittore William Blake Richmond, o ci si impantani sui tornanti della Verna con l’automobile primordiale della scrittrice americana Edith Wharton.
La sosta
nell’eremo può essere meramente fugace o protrarsi per un certo lasso di tempo;
in ogni caso, là dove l’eremo è abitato dai frati, l’accoglienza fa parte della
ritualità narrativa. Joergensen
rammenta il benvenuto ricevuto alla Verna, allorché, fradicio di pioggia, viene
ridotto allo stato adamitico davanti al fuoco e fatto rinfrancare con
abbondanti sorsate di vino.
Sempre alla
Verna e nello stesso anno, Beryl de
Selincourt rammenta con gratitudine il padre guardiano Saturnino da
Caprese,
persona dai modi gentili e di grande cortesia,
sempre pronto ad accogliere e dare ricetto ai pellegrini di qualsiasi
condizione.
Amabile è poi la descrizione della sobria colazione di Richmond, alle Carceri, a base di verdure condite con l’olio e l’aglio, vino bianco e pane nero di cui i frati raccoglievano devotamente le briciole facendole cadere dal tavolo nel sottostante cassetto delle posate.
Lo stato
d’abbandono in cui, all’inizio del
Novecento, versano i romitori è in parte la conseguenza della legge per la
liquidazione dell’asse ecclesiastico del
1867 alla quale, per altro, alcuni visitatori fanno riferimento in maniera
più o meno polemica.
Talora si
tratta di atteggiamenti tipici di una cultura più evoluta che interviene in
favore di quei beni che il giovane Stato italiano ha incamerato, senza poterne
assicurare la salvaguardia. È il caso di Richmond
che ricorda l’intervento di Lord Ripon
in favore di San Damiano per scongiurarne lo sfacelo.
In altri casi gli accenti polemici tradiscono più direttamente il risentimento clericale nei confronti della legislazione sulla soppressione degli ordini religiosi, e implicitamente dello Stato unitario. Accenti polemici di tutt’altra natura riguardano il modo indiscriminato in cui in Italia si procede al disboscamento di vaste plaghe appenniniche strettamente connesse ai romitori, distruggendo un prezioso patrimonio arboreo.
Beryl de Selincourt afferma infatti che i
romitori sono delle autentiche sentinelle della natura alle quali va
riconosciuto il merito incommensurabile di levarsi a protezione di alberi e di
uccelli.
Anche in
luoghi così solitari, così all’apparenza lontani dalle incombenze quotidiane,
il tempo fa udire i suoi inesorabili rintocchi. Può trattarsi di un suo
simulacro, come la clessidra gigantesca che il padre guardiano mostra ai
visitatori delle Celle di Cortona, spergiurando che è appartenuta a Francesco
in persona.
O può essere lo stanco orologio udito da Joergensen, fittizio sussulto di vita nel convento abbandonato di Greccio:
Tendo l’orecchio: è il monotono scatto di un
antico orologio che risuona nel grande silenzio con la voce arrochita della sua
molla esausta.
Anche alla
Verna d’altronde, e in anni a noi vicini, il tempo si fa sentire, come annota
Guido Ceronetti facendo eco alla voce di Greccio:
Vicino alle Clausure un pendolo. Un grande orologio
in cifre romane ora sulla navata ammutolita fa un rumore d’aspro immemorabile.
Il tempo
sembra scorrere a fatica nei romitori, ma scorre comunque, come se volesse
ricordare, nelle pause della meditazione, il monito francescano che invita a
riprendere il cammino nel mondo.
Il fascino della Verna consiste tutt’oggi nel mantenere desto il senso sacrale del pellegrinaggio, anche se non così intenso come doveva apparire ai tanti viaggiatori dell’Ottocento e del primo Novecento.
A Paul Sabatier, il pastore protestante
che alla fine dell’Ottocento conferì
nuova vitalità alla figura di Francesco
narrandone la biografia e interpretandone il messaggio, la Verna sembrava un immenso monolite caduto dal cielo e andato ad
arenarsi sulle alture del Casentino, a somiglianza dell’arca di Noè sul monte
Ararat.
Il blocco
di basalto, tagliato a picco, presenta delle pareti perpendicolari che rendono
inaccessibile il monte da ogni altro lato che non sia quello prospiciente il
paese di Chiusi nei cui pressi la muraglia degrada sino al livello dei pascoli.
Sull’estremo versante sud-occidentale del monte, riparato dai venti di tramontana e aperto a sterminate vedute, si stende un pianoro ricco di pini e di faggi giganti a cui s’accede da un sentiero rimasto immutato nei secoli. Qui sorsero i primi tuguri di Francesco e dei suoi compagni ed è qui che nacquero poi le stabili strutture conventuali fino a comprendere l’intero santuario bello e nobilmente teatrale, coi delicati colori robbiani elegantemente sposati al grigio, come lo definisce Guido Ceronetti.
Dal monte
Penna, Francesco poteva scorgere
molte delle contrade nelle quali aveva fatto rivivere, con rinnovato fervore e
cammino instancabile, il seme genuino del Vangelo.
La
Verna è il
più impressionante dei romitori francescani nei quali si possono sperimentare i
segni tangibili del culto arcaico della natura. È qui che uomini come Francesco fecero la conoscenza delle sue
leggi inflessibili, una natura che investirono di un afflato religioso in
quanto manifestazione del divino.
Con tutta la sua carica simbolica e rituale, la grotta votiva rivive nella topografia dei romitori: nelle caverne, nelle fessure, negli anfratti nei quali usavano ‘carcerarsi’ i seguaci di Francesco. Alla Verna questa arcaica topografia sacrale include la ‘grotta di san Francesco’, il ‘Sasso Spicco’ ed altri vertiginosi varchi, gelidi antri e periclitanti macigni. Sono questi i luoghi che grandi ammiratori di Francesco, come l’alsaziano Sabatier, l’inglese Julien Green o il danese Johannes Joergensen, avvertirono come manifestazione di santità impressa nello scenario di una natura primigenia e possente.
Qui regna il volto terribile della natura,
...scriveva nel 1802 lo scozzese Joseph Forsyth in visita alla Verna nel
corso del suo viaggio in Italia, elencando
precipizi coronati a sommo da boschi secolari,
fenditure nella roccia dove la curiosità rabbrividisce alla sola idea di
sporgersi, caverne spiritate cui le croci conferiscono rinnovata santità,
…finché
lunghe scale scolpite nel vivo sasso riportano
alla luce del giorno.
Una pagina romantica ed esagitata, quella di Forsyth, che trova una tarda eco nelle parole di Julien Green:
Vicino alla vetta [della Verna], rocce enormi
parevano precipitate in una spaccatura in fondo alla quale s’intravedeva un
abisso che toglieva il fiato. Eppure, proprio in un recesso di quell’apertura
si nascondeva Francesco. Quelle rocce frantumate in cataclismi immemorabili
raffiguravano ai suoi occhi le ferite di Cristo.
Descrizioni come queste pongono l’interrogativo di quanto sia rimasto oggi dello spettacolo naturale che già nel XV secolo incantò Bartolomeo della Gatta nella tavola che narra delle stimmate di san Francesco, Jacopo Ligozzi e Raffaello Schiaminossi che alla Verna dedicarono una guida con una serie di incisioni, sino a giungere a Jacob Philip Hackert che ne raffigurò le sacre grotte.
Nel corso dei secoli l’istituzione conventuale ha trasformato radicalmente l’ambiente creando una serie di corpi incastrati l’uno nell’altro e aderenti alla conformazione del terreno, quasi ne fossero la concrezione. Le grotte e gli anfratti naturali del primitivo insediamento francescano sono oggi inseriti – ma di fatto negletti – in un itinerario tortuoso che si snoda attraverso ambulacri e cappelle e le pause dei cinque chiostri.
Un percorso
intervallato dalle terrecotte invetriate dei Della Robbia, ‘frammenti di latteo
cielo penetrati nelle chiese ombrose’, come le definiva Walter Pater. Ma resta pur sempre il ‘Sasso Spicco’ con il suo
incombente macigno, metafora del mondo sconvolto al momento della morte di
Cristo e collegato con l’evento delle stimmate. È qui, in questa luce
perennemente verde, nello stillicidio di questa clessidra naturale, in questa
vibrante solitudine che credenti e non credenti avvertono il fascino di un
luogo vissuto fino allo spasimo dall’uomo che, in questo secondo Calvario,
seppe concludere in totale solitudine la parabola dell’alter Christus.
Dimostrata la falsificazione dell’atto con cui Orlando Cattani, nobilotto di Chiusi, nel 1213 avrebbe donato la Verna a Francesco, le fonti più attendibili collocano la presenza dell’assisano sul sacro monte nel 1224. Tommaso da Celano scrive che in quell’epoca Francesco, desiderando di dedicarsi alla contemplazione, prese con sé pochi compagni perché ‘fossero custodi amorosi della sua quiete’ in un luogo isolato.
Scoglio
solitario fra due vallate, la Verna apparve ai
confratelli, andati in avanscoperta, adatta allo scopo per le grotte naturali e
qualche povero tugurio coperto di frasche. Pertinente è l’annotazione di frate
Leone nella così detta chartula che contiene le Lodi al Dio altissimo.
Annota frate Leone che, due anni prima della morte, nel 1224, Francesco fece una quarantena nel monte della Verna in onore della Vergine e di san Michele arcangelo, dalla festa dell’Assunzione, il 15 agosto, a quella settembrina del santo.
E fu fatta su di lui la mano del Signore,
aggiunge
frate Leone.
Dopo la visione e l’allocuzione del Serafino e
l’impressione delle stimmate nel suo corpo, fece queste lodi.
Per una
ventina d’anni, dopo la morte di Francesco,
la Verna non è altro che un oscuro romitorio, ma
nel 1250 Innocenzo IV ne proclama la
santità e tre anni dopo Rinaldo di Ienne, cardinale protettore dell’Ordine dei
Minori, collega la santità del monte con l’evento delle stimmate. Da quel
momento in poi i miseri tuguri e le verdi grotte acquistano l’importanza di
santuario diventando meta di pellegrinaggi e gradualmente vedono sorgere la
chiesa di Santa Maria degli Angeli e le strutture conventuali.
(Brilli/Neri)
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