CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
30 MAGGIO 1924

sabato 29 giugno 2024

INCOMPRENSIONI CULTURALI

 








Che il silenzio sia una forma di comunicazione in alcuni casi più efficace della parola non è un’idea nuova. I significati del silenzio, le sue applicazioni, la sua stessa forza persuasiva erano ben noti agli antichi che non di rado si sono interrogati sulla sua essenza e sulle sue funzioni.

 

Il silenzio come difesa, il silenzio come parola, il silenzio come paura, il silenzio come tracotanza, il silenzio come prescrizione.

 

Si potrebbe continuare a lungo perché il silenzio, al pari della parola, è espressione diretta di uno stato d’animo in stretto rapporto con le reazioni del corpo e obbedisce all’esigenza, più spesso intima ma talvolta anche corale, di manifestare emozioni, trasmettendole mediante una afonia carica di significati. Questa natura ossimorica del silenzio ha dato origine, nella copiosa letteratura sull’argomento, a una serie innumerevole di espressioni denotanti la dualità contraddittoria del concetto stesso: ‘parlar tacendo’, muta eloquentia, ‘il silenzio parlante’, ‘eloquenza del silenzio’, ‘la voix du silence’, ‘spoken and acted silence’, ‘un langage sans voix’, e via dicendo.




Tutti questi ossimori traducono lo sforzo di definire il silenzio, che è sì assenza di parola, ma che al tempo stesso può avere tutte le valenze e le funzioni della parola, così come in musica le pause possono avere valore al pari dei suoni. Scrive Mario Brunello in un volumetto sul ruolo del silenzio nella sua esperienza musicale:

 

‘Scoprii il potere del silenzio e il silenzio mi fece scoprire di essere musicista ... Scoprii che il silenzio è il vero palcoscenico della musica e che lì avevo trovato la mia voce e un modo di comunicare’.

 

Il silenzio o è una scelta o è un’imposizione. Nel primo caso le motivazioni possono essere le più varie, ma di natura prevalentemente soggettiva; nel secondo caso l’affermarsi di una volontà superiore (degli dèi, del legislatore, dei sacerdoti, di un vincitore o d’altri) costringe ad un mutismo subìto, ma che non di rado raccoglie anche il consenso del silente.




Consideriamo per esempio il silenzio rituale sul quale molto si è discusso e sul quale quando, analizzando i vari gradi del silenzio nella preghiera nell’antica Grecia, si può affermare che nelle preghiere silenziose attestate dalle più antiche fonti non vi è mai l’intendimento di soddisfare un bisogno intimo religioso.

 

Il silenzio legato alla ritualità può essere imposto nell’ambito del sacrificio, prima delle libagioni; può obbedire alle esigenze della segretezza; può essere proclamato da un araldo, diventando esso stesso atto rituale. Nei riti di purificazione il silenzio – come tratto di marginalità – gioca un ruolo importante perché designa l’allontanamento e l’estraniamento del colpevole dai rumori e dalle voci della città.

 

Il silenzio dei barbari muove un’attenta analisi di un passo delle Trachinie e da un brano di Strabone per evidenziare la rappresentazione negativa che del linguaggio dei barbari davano i Greci: ‘aglossia’ assoluta e radicale nel primo caso dovuta a una anomalia fisica degli organi fonatori dei barbari nel secondo caso. Le conclusioni sono importanti per la storia dei rapporti tra Greci e barbari perché l’incomprensibilità delle voci e delle parole tra gli uni e gli altri negli esiti a livello di comunicazione equivale, di fatto, al silenzio.




Il discorso in questo caso si complica perché investe l’alterità del non-greco che non comprende e non sa parlare la lingua greca, ma che può supplire con vari tipi di gestualità alla difficoltà di comunicazione.

 

Clitemestra si rivolge alla silente Cassandra, prigioniera di guerra di Agamennnone, invitandola a usare, al posto delle parole, cenni di mano. Vi sono poi barbari che hanno scelto e subito un processo di ellenizzazione così avanzato – compreso l’uso della lingua – da perdere l’identità di barbari, come gli Sciti Tossari e Anacarsi. Il linguaggio è, infatti, una delle principali componenti dell’identità culturale dell’Hellenikon ed a chi non parla greco viene escluso il contatto con gli interlocutori greci.

 

Vediamo, a questo punto, un brevissimo frammento di Pindaro (fr. 229 Maehl.) che apre uno squarcio su un’altra categoria di persone costrette al silenzio: i vinti.

 

‘I vinti sono incatenati al silenzio e non osano andare incontro agli amici’.




Il poeta tebano parla degli atleti sconfitti negli agoni, che sono condannati al silenzio e non osano incontrare gli amici. Ma ben più grave è la vergogna della sconfitta per i prigionieri e i perdenti in caso di guerra. Come in tutte le epoche il silenzio è la cifra che li contraddistingue. Creso, fatto prigioniero da Ciro e costretto a salire sul rogo carico di catene, tace in un lungo silenzio e alle domande degli interpreti persiani, che vogliono sapere perché ha pronunciato per tre volte il nome di Solone, oppone un ostinato mutismo.

 

La linea di demarcazione tra grecità e barbarie, che in molti, noti esiti della cultura ellenica, soprattutto nel v e iv sec., si disegnava in maniera altrettanto netta, comportando, ad esempio, l’assimilazione dei barbari non solo agli animali e alle donne ma anche alle piante, nonché l’affermazione del diritto greco al dominio su di loro, schiavi di natura, passava anche attraverso la rappresentazione delle voci e dei suoni del mondo ‘altro’, che si rivela come una discriminante particolarmente significativa e funzionale sia alla propria autoidentificazione sia all’individuazione della figura del barbaro.




Né poteva essere diversamente, se la lingua figurava, insieme al sangue, alla religione, ai costumi, tra gli elementi etnico-culturali che in un famoso passo di Erodoto definiscono, in una sintesi magistrale, l’Hellenikon, l’identità greca. Una testimonianza in tal senso della percezione delle lingue non greche, radicale e ardita nel contenuto ed esasperata nell’ideologia che essa esprime, trova un’adeguata collocazione nello spazio scenico delle Trachinie di Sofocle, dove si inserisce in modo funzionale nel tessuto narrativo e coerente con le modalità di rappresentazione del mito trattato. 

 

[….] Dominante, in questi versi retoricamente costruiti, in modo parallelo e simmetrico, sulla doppia successione di tre membri, ciascuno contrassegnato da negazioni, è l’idea dell’attività di addomesticatore e civilizzatore di Eracle che costituiva un elemento di spicco nel ricchissimo dossier biografico dell’eroe, e che si era svolta nello spazio del mondo conosciuto, abitato da Greci e barbari: nulla indica una differenziazione riguardo al modo in cui Eracle sarebbe intervenuto in queste diverse aree, o riguardo alla ferocia degli avversari o alla resistenza da loro opposta nei luoghi visitati dall’eroe.




Si avrebbe quasi l’impressione di un’equivalenza perfetta tra i due ‘emisferi’, con identico fervore liberati dal loro comune stadio di primitiva ferinità, se non fosse per il rilievo assunto dal tratto dell’aglossia, fortemente individualizzante e caratterizzante della parte ‘altra’ del mondo rispetto a quella greca. L’espressione, che prospetta un’immagine inconsueta e abnorme, è retoricamente coerente con la facies iperbolica di tutto il monologo e a livello tematico si attaglia in modo perfetto alla dimensione marcatamente arcaica, pre-umana ed extra-umana, dominata da entità mostruose, dalla violenza ferina e dalla fisicità di scontri animaleschi, brutali e feroci, che tutta la tragedia evoca.

 

Con questa realtà aberrante, la barbarica terra senza lingua condivide uno statuto segnatamente inferiore rispetto sia ai parametri della normale fisiologia umana sia ai canoni del mondo civilizzato, caratterizzandosi come parte della terra abitata alla quale in modo radicale è negata tout court la possibilità di emettere suoni: una vera condanna al silenzio totale, una condizione esistenziale di assenza di voci, una esclusione senza deroghe dal processo di comunicazione, quindi dalle umane relazioni, un segno di discrimine totale e assoluto fra la terra barbara e quella greca.




Ben diverso, nel contesto del dramma, è di conseguenza il loro rispettivo rapporto con l’eroe che le ha purificate: è la Grecia, non certo la terra ‘senza lingua’, a soffrire e piangere per la fine imminente del protagonista assoluto della vittoria della civiltà sulla barbarie, ed è solo ai Greci che Eracle si rivolge, aspettandosi da loro il gesto pietoso di una morte che lo liberi dalle intollerabili sofferenze.

 

Strabone denotava tutti i popoli non greci come ‘coloro che avevano difficoltà di pronuncia ed emettevano suoni duri ed aspri’; essi venivano così ad essere scherniti per la ‘pronunzia’ che l’orecchio greco coglieva nei suoni da loro prodotti. Attraverso una fase successiva, in cui si registrava un uso altrettanto generalizzato, ma improprio, del termine, impiegato come una denominazione etnica indicante tutte le stirpi non greche contrapposte agli ‘Hellenes’, si arrivava alla scoperta, conseguente alla ininterrotta frequentazione greca con i barbari ed espressione di un’ottica relativistica, che le presunte difficoltà articolatorie dei non Greci erano dovute alle specificità dei loro idiomi, compresa una presunta paradossale difficoltà comprensiva degli stessi che ne regolano l’articolata grammatica pronunziata o tacitata; ed una limitatezza intellettiva seppur ‘diversa’ nella forma dei parlanti: termini che non possono non evocare l’aglossos gaia sofoclea, per la concretezza della rappresentazione, la categoricità dell’assunto e l’atteggiamento mentale nei confronti di questo specifico aspetto del mondo barbaro.




Tra le varie espressioni riferite, nel passo straboniano, al modo di parlare dei non Greci, là ove si stabilisce una connessione tra le diffcoltà fonatorie ed una presunta inadeguatezza fisica: un rapporto di interdipendenza reciproca che a un livello più generale non era sfuggito, ovviamente, all’indagine medica ippocratica e neppure alla riflessione propriamente filosofica, di Pitagora e Platone ad esempio, i quali ponevano in stretta relazione l’incapacità di parlare degli esseri viventi ritenuti privi di ragione e una condizione squilibrata del corpo.

 

Relativamente al trattato De audibilibus, di provenienza peripatetica e incentrato sui meccanismi di produzione e ricezione dei suoni, si apprende che le ‘voci’ erano avvertite come ‘spesse’, ‘pesanti’, ‘dense’ ‘inarticolate’ ‘inespressive’ e condensate e intramezzate da risate ubriache conferite dalla mancanza di comprensione della Natura e la sua Poesia.

 

Ritenute il risultato di una affezione, anche transitoria, a livello del sistema fonatorio, consistente nella ruvidezza della trachea, che impedisce una fuoriuscita agevole del pneuma causando un aumento di volume della voce.




Oltre che dal De audibilibus, anche dal De voce, che costituisce la sezione XI dei Problemata pseudo-aristotelici, quindi da una trattatistica di tipo specialistico che affrontava problematiche di acustica, di fonetica, di musica, si desumono indicazioni sulla percezione del suono ‘aspro’, ‘meccanico’, riconosciuto come caratteristico della voce dell’adolescente nella fase della pubertà, non più acuta e non ancora grave, di altezza oscillante, con effetto disarmonico, come ogni suono generato da organi fonatori resi ruvidi da una anomala condizione fisica.

 

Voci o rumori si distinguono per la mancanza di fluidità nell’articolazione dovuta a una incapacità di collegare i suoni, e per la conseguente percezione dell’interruzione del continuum fonico. Imperfezioni anatomiche o affezioni transitorie privano le funzionalità di bambini, ubriachi, vecchi, balbuzienti – in generale di tutti coloro che hanno difficoltà (oltre che di comprensione intellettiva) a muovere lingua e bocca in modo corretto – della qualità che rende le voci intelligibili, cioè la fisiologia determinata dalla precisione con cui vengono emessi i suoni che debbono essere distintamente articolati per essere correttamente percepiti e compresi dagli stessi soggetti parlanti.




In particolare, i balbuzienti, compresi gli odierni balbuzienti del frammentato messaggino, non avendo la padronanza della propria lingua, sono ancor oggi affitti da una sorta di discrasia tra il movimento articolatorio e l’attività intellettiva (la quale viene compensata dall’I.A.). E balbuzienti per eccellenza, come indica il termine onomatopeico che li connota collettivamente, sono considerati i barbari: pur non citati espressamente nel passo del De audibilibus, essi condividono con le altre categorie menzionate l’inintelligibilità delle proprie voci, qui riferita al livello dell’articolazione e della fonazione dei suoni, ma con intuibili inferenze anche sul piano della loro semanticità. 

(A. Amatori)









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