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& in Memoria di
Giacomo Matteotti
Prosegue il 30 maggio
Uno dei
motivi – numerosi, tanti, troppi, non ce la farò ad elencarli tutti, e in
effetti vi dedicherei l’intero seminario... uno dei tanti motivi per cui ho
scelto, in questo insieme di proverbi, quello che forma il sintagma ‘a passo di
lupo’, è proprio perché l’assenza del lupo è anche espressa nell’altra
operazione silenziosa del ‘passo’, del vocabolo ‘pas’ che implica e lascia
percepire, ma senza alcun rumore, la selvaggia intrusione dell’avverbio di
negazione (‘pas’, passo di lupo, non ci sono lupi, non c’è il lupo)
l’intrusione clandestina dell’avverbio
di negazione ‘non’ nel nome, nel ‘passo
di lupo’. Un avverbio abita un nome. L’avverbio ‘non’ si è introdotto in
silenzio, a passo di lupo, nel nome del ‘passo’.
Tutto ciò
per dire che là dove le cose si annunciano a ‘passo di lupo’, il lupo non c’è
ancora, non il lupo reale, non il lupo cosiddetto naturale, non il lupo
letterale. Il lupo non c’è ancora là dove le cose si annunciano ‘a passo di
lupo’. C’è solo una parola, un vocabolo, una favola, un lupo delle favole, un
animale favoloso, addirittura un fantasma (phantasma
nel senso dello spirito greco; o fantasma nel senso enigmatico della
psicanalisi, per esempio nel senso in cui il totem corrisponde ad un fantasma);
c’è solo l’altro ‘lupo’ che simboleggia un’altra cosa - un’altra cosa o qualcun
altro, l’altro la figura favolosa del lupo, come un sostituto o un suppletivo
metonimico, annuncerebbe e dissimulerebbe, paleserebbe e maschererebbe.
E non dimenticate che in francese si chiama ‘loup’, ‘lupo’ anche la maschera del velluto nero che un tempo indossavano le donne soprattutto, le ‘dame’ più spesso degli uomini, indossavano, in un certo periodo, in certi ambienti, e in particolare in occasione dei balli in maschera. Il suddetto ‘lupo’ permetteva loro di vedere senza essere viste, di riconoscere senza lasciarsi riconoscere.
E l’essenza
di questo lupo inafferrabile di persona se non attraverso la parola di una
favola, questa assenza afferma allo stesso tempo il potere, la risorsa, la
forza, l’astuzia, lo stratagemma di guerra, lo stratagemma o la strategia,
l’operazione dell’invisibile dominio. Il lupo è tanto più forte, il significato
del suo potere è tanto più terrorizzante, armato, minaccioso, virtualmente
predatorio in quanto in questa denominazione, in queste locuzioni, il lupo non
appare ancora di persona ma solo nella persona teatrale di una maschera, di un
simulacro, di una parola, cioè di una favola o di un fantasma.
La forza
del lupo è tanto più forte, addirittura sovrana, ha tanto più ragione di tutto
in quanto lupo non c’è, non c’è il lupo stesso, salvo un passo di lupo, eccetto
un ‘passo di lupo’, tranne un ‘passo di lupo’, solo un ‘passo di lupo’.
Direi allora che questa forza del lupo insensibile (insensibile perché non lo si vede né lo si sente arrivare, insensibile perché invisibile e non udibile, dunque non sensibile, ma anche insensibile perché tanto più crudele, impassibile, indifferente alla sofferenza delle sue vittime virtuali), dico allora che la forza di questa bestia insensibile sembra aver ragione di tutto perché attraverso questa singolare locuzione idiomatica (avere ragione di, quindi prevalere su, essere il più forte), si annuncia la questione della ragione, quella della ragione zoologica, della ragione politica, della razionalità in generale: che cos’è la ragione?
Che cos’è
una ragione?
Una buona o
una cattiva ragione?
E voi
vedete bene che quando passo alla domanda ‘che cos’è la ragione?’ alla domanda
‘che cos’è una ragione?’, buona o cattiva, il senso della parola ‘ragione’ è
mutato.
E cambia
ancora quando passo da ‘aver ragione’ (dunque avere una buona ragione da far
valere in un dibattito o in una lotta, una buona ragione contro una cattiva
ragione ingiusta), la parola ‘ragione’ cambia quindi ancora quando passo da
‘avere ragione’ in una discussione ragionevole, razionale, ad ‘aver ragione di’
in un rapporto di forza, una guerra di conquista, una caccia, addirittura una
lotta all’ultimo sangue.
(a) È giusto che ciò che è giusto sia seguito, è necessario che ciò che è più forte sia seguito.
(b) La
giustizia senza la forza è impotente: la forza senza la giustizia è tirannica.
(c) La giustizia senza la forza è contestata,
perché ci sono sempre malvagi; la forza senza giustizia è messa sotto accusa.
(d) Bisogna
dunque mettere insieme la giustizia e la forza e, perciò fare ciò che è giusto
sia forte, o ciò che è forte sia giusto.
(e) La
giustizia è soggetta a contestazioni, la forza è riconoscibilissima e senza
dispute.
(f) Così
non si è potuto dare la forza alla giustizia, perché la forza ha contraddetto
la giustizia, e ha affermato che quella era ingiusta, e ha detto che solo lei
era giusta.
(g) E così non potendo far sì che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto.
Comunque si
capisca la parola, l’analogia è sempre una ragione, un logos, un ragionamento,
o anche un calcolo che si muove, risale verso un rapporto di produzione, o
somiglianza, o comparabilità in quale identità e differenza coesistono. Qui,
ogni volta che parleremo della bestia e del sovrano, avremo visualizzato un’analogia
tra due rappresentazioni correnti (corrente e quindi problematico, sospetto, da
interrogare) tra questo tipo di animalità, o essere vivente, che viene chiamato
la ‘bestia’ o che viene rappresentato come bestialità, da un lato, e dall’altro,
una sovranità che il più delle volte è rappresentata come ‘umana’ o ‘divina’,
in un aspetto ‘antropo-teologico’.
Ma
coltivando questa analogia, chiarificandone il suo territorio, non significa né
accreditarlo né semplicemente viaggiarci dentro in una sola direzione, ad
esempio riducendo la ‘sovranità’ (politica sociale o individuale, e queste sono
già diverse e terribilmente problematiche dimensioni), come è più spesso
situato nell’ordine umano, [riducendolo, quindi] a prefigurazioni dette
zoologiche, biologiche, animali o bestiali.
Non
dovremmo mai accontentarci di dire, nonostante le tentazioni, qualcosa del
tipo: il sociale, politico, e in essi il valore o l’esercizio della sovranità
che sono semplicemente manifestazioni mascherate di forza animale, o conflitti
di pura forza; la verità che ci è data dalla zoologia, cioè in fondo bestialità
o barbarie, o crudeltà disumana. Sarebbe e sarà possibile citare mille e una dichiarazione
che si basano su questo schema, un intero archivio o una biblioteca mondiale.
Noi potremmo anche invertire il senso dell’analogia e riconoscere, al contrario, non che l’uomo politico è ancora animale ma che l’animale è già politico, e mostrare, come è facile fare, in molti esempi di quelle che vengono chiamate società animali, ovvero la comparsa di organizzazioni raffinate, complesse, con strutture gerarchiche, attributi di autorità e potere, fenomeni di credito simbolico, tante cose che sono così spesso attribuite e così ingenuamente riservate alle cosiddette civiltà umane dotate di cultura, in opposizione alla natura.
Per fare
solo un esempio, molto vicino al nostro seminario, è incontestabile che ci sono
società animali, organizzazioni animali che sono raffinate e complicate nell’organizzazione
dei rapporti familiari e nelle relazioni
sociali in genere, nella distribuzione del lavoro e della ricchezza, nell’architettura,
nella eredità delle cose acquisite, dei beni o delle capacità non innate, nella
condotta di guerra e pace, nella gerarchia dei poteri, nell’istituzione di un
capo assoluto(per consenso o per forza, se si possono distinguere), di un capo
assoluto che ha diritto di vita e di morte sugli altri, con possibilità di rivolte,
riconciliazioni, perdoni concessi, ecc.; non basterà tenerne conto questi fatti
poco contestabili per concludere da essi che c’è politica e in particolare la
sovranità nelle comunità di esseri viventi non umani.
‘Sociale-animale’ non significa necessariamente animale politico; ogni legge non è necessariamente etica, giuridica o politica. Quindi è il concetto di diritto, e con esso quello di contratto, autorità, credito, e quindi molti, molti altri che saranno al cuore delle nostre riflessioni. È la legge che regna (in un modo che è del resto differenziato ed eterogeneo) in tutte le cosiddette società animali della stessa natura di ciò che intendiamo per legge dei diritti umani e/o ‘politica-umana’?
Ed è la
complessa, anche se relativamente breve, storia del concetto di sovranità in
Occidente (un concetto che è esso stesso un’istituzione che cercheremo di studiare
come si può) la storia di una legge la cui struttura si ritrova anche nelle
leggi che organizzano i rapporti gerarchizzati di autorità, egemonia, forza,
potere, potere di vita e di morte nel cosiddetto ‘animale di società’?
La domanda
è tanto più oscura e necessaria per il fatto che la caratteristica minima che
deve essere riconosciuta nella posizione di sovranità, e ciò nemmeno un preliminare, è, come abbiamo
insistito in questi ultimi anni con rispetto a Schmitt, un certo potere di dare, di fare, ma anche di sospendere la
legge.
È l’eccezionale pretesa di porsi al di sopra del diritto, il diritto del non giusto, se posso dire ciò, e che corre il rischio di portare l’’ ‘umano-sovrano’ al di sopra dell’umanità, verso l’‘onnipotenza divina’ (che sarà del resto il più delle volte hanno fondato il principio di sovranità nella sua sacra origine teologica) e, a causa di questa arbitraria sospensione o rottura del diritto, corre il rischio di far sembrare il sovrano la bestia più brutale che non rispetta nulla, disprezza la legge, si pone immediatamente al di sopra della legge, a distanza dalla legge.
Per la
rappresentazione attuale, alla quale ci riferiamo tanto per cominciare, sovrano e bestia
sembrano avere in comune il loro ‘essere-fuori-la-legge’. È come se entrambi si
trovassero per definizione a distanza, da o al di sopra delle leggi, non
rispettando la legge assoluta, la legge assoluta che esse fanno o che sono
(rappresentano), ma che non devono rispettare.
‘Essere-fuori-legge’
può, senza dubbio, da un lato (e questa è la figura della sovranità), prendere
la forma di essere al di sopra delle leggi, e quindi assumere la forma della
Legge stessa, all’origine delle leggi, il garante delle leggi, come se la
Legge, con la L maiuscola, la condizione
della legge, erano prima al di sopra, e quindi al di fuori della legge, esterna,
o anche, eterogeneo rispetto alla legge.
Ma l’essere-fuori-legge può anche, d’altra parte (e questa è la figura di ciò che più spesso si intende per animalità o bestialità), [l’essere-fuori-legge può anche] situare il luogo dove la legge non compare, non viene rispettata, o viene violata.
Questi modi
di essere-fuori dalla legge (sia il modo di quella che viene chiamata la
bestia, sia quello del criminale, anche di quel grande criminale di cui
parlavamo l’anno scorso del quale Benjamin
ha detto che affascina la folla, anche quando è condannato e giustiziato,
perché, insieme alla legge, sfida la sovranità dello stato come monopolio della
violenza; sia l’essere-fuori-legge del sovrano stesso), questi diversi modi di
essere-fuori-legge possono sembrare eterogenei tra loro, o anche apparentemente
eterogenei rispetto alla legge, ma resta il fatto, condividendo questo comune
essere-fuori legge, ‘bestia criminale e sovrano’, hanno una somiglianza
inquietante: si invocano e si ricordano l’un l’altro, dall’uno all’altro.
C’è tra
sovrano criminale e bestia, una sorta di complicità oscura e affascinante, o
addirittura, una preoccupante reciproca attrazione, un rapporto inquietante, un
tormento reciproco. Entrambi, tutti e tre, l’animale, il criminale e il
sovrano, sono... al di fuori della legge, a distanza o al di sopra delle leggi:
criminale, bestia e sovrani si somigliano stranamente mentre sembrano situati
agli antipodi, agli antipodi l’uno dell’altro.
Si intravede inoltre, la breve ricomparsa del lupo, e che il soprannome di ‘lupo’ è dato a un capo di stato come padre della nazione. Mustapha Kemal che si era dato il nome di Atatürk (Padre dei Turchi) era chiamato dai suoi partigiani il ‘lupo grigio’, in ricordo del mitico antenato Gengis Khan, il ‘lupo blu’.
Credo che
questa inquietante somiglianza, questa preoccupante sovrapposizione di questi due
esseri-fuori-legge o ‘senza leggi’ o ‘al di sopra delle leggi’ di cui entrambi
sono sovrani, e se visti da una certa angolazione - credo che questa somiglianza
spiega e genera una sorta di fascino ipnotico o irresistibile allucinazione,
che ci fa vedere, proiettare, percepire, come in una radiografia, il volto della
bestia sotto le fattezze del sovrano; o viceversa, se preferite, è come se
attraverso le fauci della bestia indomabile, una figura del sovrano possa apparire
e generarsi ai vostri occhi.
E come in
quei giochi di specchi, in cui una figura si sovrappone all’altra nella
vertigine di questa unheimlich,
perturbante allucinazione, una sarebbe come una preda a un’infestazione, un
contagio, o meglio, allo spettacolo di una spettralità contagiosa: l’infestazione,
la possessione del sovrano dalla bestia e la bestia dal sovrano, colui che
abita o che ospita l’altro, l’uno diventa l’ospite intimo dell’altro, l’animale
diventando l’hôte (ospite e ospite),
anche l’ostaggio, di un sovrano del quale sappiamo anche che può essere molto
stupido [très bête] senza che ciò influisca affatto l’onnipotenza assicurata
dalla sua funzione o, se si vuole, da uno dei ‘re’ dei due corpi.
Nella copertura metamorfica delle due figure, la bestia diventa il sovrano che diventa bestia; c’è la bestia e [et] il sovrano(congiunzione), ma anche la bestia è [est] il sovrano, il sovrano è [est] la bestia.
Donde, e
questo sarà uno dei punti focali maggiori della nostra riflessione, il suo maggior
orientamento politico attuale, e donde l’accusa così spesso formulata oggi nella
retorica dei politici contro gli stati sovrani che non rispettano l’internazionale
legge del diritto, e che sono chiamati ‘stati canaglia’ [États voyous], cioè
stati delinquenti, stati criminali, stati che si comportano come briganti, come
ladri di strada o come volgari furfanti che fanno quello che sentono, non
rispettano il diritto internazionale, stando ai margini della civiltà
internazionale, violare la proprietà, le frontiere, regole e buone maniere
internazionali, comprese le leggi di guerra (essendo il terrorismo una delle
forme classiche di questa delinquenza, secondo la retorica dei capi di Stati
sovrani che dal canto loro pretendono di rispettare il diritto internazionale).
Ora ‘Étatvoyou’
è una traduzione dell’inglese ‘rogue’, ‘rogue state’ (in tedesco, Schurkeche
può anche significare ‘mascalzone’, limite, imbroglione, truffatore, marmaglia,
farabutto, criminale, è la parola usata anche per tradurre canaglia). ‘Stato
canaglia’ in inglese sembra essere il primo nome, poiché l’accusa fu formulata
per la prima volta in inglese dagli Stati Uniti. Ora noi vedremo, quando
andremo in questa direzione e studieremo gli usi, la pragmatica, e la semantica
della parola ‘canaglia’, molto frequente in Shakespeare,
ciò che riguarda anche noi sull’animalità o la bestialità.
La ‘canaglia’, sia che abbia a che fare con l’elefante, la tigre, leone, o ippopotamo (e più in generale animali carnivori), [la “canaglia”] è l’individuo che non rispetta nemmeno la legge della comunità animale, o del branco, l’orda, nel suo genere. Con il suo comportamento selvaggio o indocile, rimane o si allontana dalla società a cui appartiene. Come sapete, gli stati che sono accusati di essere e comportarsi come ‘stati-canaglia’ spesso respingono l’accusa contro il pubblico ministero e sostengono a loro volta che i veri ‘stati-canaglia’ sono gli Stati-nazione sovrani, potenti ed egemoni che iniziano con il non rispettare la legge o il diritto internazionale a cui affermano di fare riferimento, e danno lungo e praticano il terrorismo di stato, che è semplicemente un’altra forma internazionale di terrorismo.
(Derrida)
La Bestia è tornata
Non che
fosse scomparsa, ce l’aveva solo fatto credere. Aveva imparato a nascondersi
bene. Poi ha capito che poteva uscire di nuovo allo scoperto, e senza che
questo destasse particolare stupore, né riprovazione, né indignazione, anzi. La Bestia
ha semplicemente cambiato pelle. Con un suono diverso ha ricominciato a
ringhiare in noi. Oggi, settantanove anni dopo essere stata abbattuta, è
rispuntata come una nera fenice.
Dunque
rieccola qui, sotto nuove spoglie.
Mutata. Disarticolata. Rimodellata. Rieditata. Mitigata. Ingentilita. Decontestualizzata. Ricontestualizzata. Subdola. Liquida. Disaggregata. Proprio per questo più insidiosa. In apparenza depotenziata, e dunque digeribile. Almeno nella mente di chi l’ha risvegliata e l’ha rimessa in libertà. Per calcolo. E perché quel calcolo, nei progetti di chi lo ha fatto, è considerato vincente.
La Bestia è il fascismo che torna
sulla tavola degli italiani. La tavola della democrazia nata dall’antifascismo,
dalla resistenza partigiana, dalla lotta di liberazione. Quel desco che al
centro ha la nostra Costituzione repubblicana e che adesso si ritrova di nuovo,
come commensale sgradito e inatteso, lui, il ‘fascismo nuovo’. Una sintesi tra
postfascismo, neofascismo, criptofascismo e populismo. Che va persino oltre i
partiti che l’hanno risvegliata: oltre la politica.
Perché la Bestia
ha capito che per rialzarsi basta riconnettersi alla pancia di un Paese che
quel passato non lo ha mai davvero metabolizzato. Non lo ha mai espulso.
Semmai, culturalmente, lo ha semplicemente congelato in attesa di capire se
davvero l’organizzazione democratica del nostro Stato sia la migliore delle
forme di governo possibili.
La Bestia è tornata in silenzio, senza che ce ne accorgessimo. Nel ventre della democrazia che salvaguardia la libera espressione del pensiero. In realtà, come ripete da anni, tra gli altri, Liliana Segre, il fascismo non se n’era mai andato. Era lì, sul fondo del Paese o Nazione, con la N maiuscola, per dirla con la narrazione della premier Giorgia Meloni, già fan del duce criminale Benito Mussolini e del razzista repubblichino Giorgio Almirante.
Attenzione, si badi bene: qui non parliamo del
fascismo storico, quello iniziato con la marcia su Roma e che poi, alleato coi
nazisti, perseguitò, rastrellò e deportò gli ebrei. Quel fascismo resta scritto
nei libri di storia; sta nella memoria di chi lo ha vissuto sulla propria
pelle. No, parliamo di qualcosa di
diverso, di sorprendente; così multiforme e dilatato, e coperto, da rendersi a
volte invisibile. Eppure, prima al buio e ora sempre più alla luce, la Bestia
te la trovi di fronte; ti ci devi misurare. Conviene descriverla così.
È l’avvento
di un ‘fascismo’ ideale, culturale; un’ispirazione o un’attitudine fascista a
cui attingono a piene mani non solo gli inguaribili nostalgici, non solo l’uomo
della strada, ma tutti coloro, e sono tanti, rappresentati politicamente da
partiti di governo che puntano a raggiungere il 30 per cento dei voti e
propongono modelli rassicuranti, come li chiama Mimmo Franzinelli in ‘Il
fascismo è finito il 25 aprile 1945’.
Parliamo di quei leader politici più o meno carismatici che lavorano, nemmeno troppo sotto traccia, per silenziare il diritto al dissenso, reprimere e mettere nell’angolo minoranze scomode, imporre il proprio potere con arroganza e decisionismo cesarista. Accendere la rabbia e spremerla per ricavarne profitto. Riattizzare una visione patriarcale della società, pompare il nazionalismo, colare retorica sulla patria, l’orgoglio, il coraggio. Oggi Meloni e Fratelli d’Italia sono in cima al podio dei falsi ‘modelli rassicuranti’.
Per capire la Bestia
bisogna pensare a un comune sentire, su cui la destra estrema che oggi governa
l’Italia ha lavorato per renderlo presentabile e sfruttabile come veicolo di
consenso. Un’arma di marketing politico, una sfida da campagna elettorale
perenne.
I concetti
alla base delle tesi fasciste hanno ancora presa su parte degli italiani?
Quanto
rendono?
È la
domanda che si deve essere fatta Giorgia Meloni quando ha iniziato la sua
corsa, prima alla leadership della coalizione di governo che la vede alleata
con Lega e Forza Italia, e poi verso Palazzo Chigi. La risposta sta in quello
che è successo prima e dopo le elezioni del 2022: fatalmente, nel centenario
della marcia su Roma che decretò l’inizio del fascismo in Italia. È chiaro ed
evidente che per la leader di FDI riattizzare – tra ambiguità e infingimenti –
la storia politica rappresentata dalla fiamma tricolore è stata una strategia
vincente. Se l’è giocata così e ha fatto bingo. Se e fino a quando durerà la
rendita del jackpot è difficile prevedere.
Ma finora è andata così.
Lo
sdoganamento intenzionale della Bestia è stato insieme causa ed effetto di
una forma virale penetrata nel corpo della democrazia. È un virus che contagia
– è vero – istituzioni, enti, associazioni, organismi, fondazioni; insomma tutto
ciò che permette di gestire il potere. Ma il vero obiettivo di chi ha rimesso
in libertà la
Bestia è un altro: infilarne il ringhio nella testa dei cittadini,
nei comportamenti, nella mentalità che definiamo corrente. Influenzare o
storpiare il ragionamento; mutare, stravolgere convinzioni, certezze, dati
acquisiti. Conquiste sociali che credevamo granitiche.
La ragione
si piega facilmente. L’inganno del sovranismo è vendere l’illusione di vedere
rimesse in ordine le cose, governato il caos. Un piano propagandistico che in
realtà serve alle forze politiche specializzate nella strumentalizzazione della
paura. Che poi il caos è più utile se non viene risolto. Così si ha la
possibilità di speculare sull’emergenza, di costruire facile consenso, di
macinare voti. E dunque di governare. Che in effetti vorrebbe dire risolvere i
problemi, non lasciarli lì come strumento su cui far leva. Ma tant’è.
Nella
stagione del melonismo la Bestia trova il suo momento di massima libertà
ed esaltazione. Questione di eredità ideologiche, certo, di matrice. Di un
passato con cui l’Italia non solo non ha mai fatto i conti, ma con il quale non
ha mai davvero rotto. Fratelli d’Italia ancor meno, anzi: molti suoi esponenti
rivendicano l’eredità di quel passato, se ne appropriano; lo assorbono nella
narrazione neopatriottica per dargli continuità.
In una dimensione di ambiguità continua, voluta, cercata dalla stessa leader. Meloni – preceduta con parziale successo da Salvini, prima che si suicidasse politicamente osando l’inosabile, e cioè chiedendo nel 2019 agli italiani, al culmine della folle estate del Papeete, di dargli pieni poteri come fece Mussolini – ha coltivato la piantina. Ha concimato un humus italiano. Lo ha fatto per calcolo.
Si è mossa
dentro uno schema che prevede due dimensioni o due binari. Il primo, quello
governativo: facciata conservatrice più o meno rassicurante per le cancellerie
europee, per la NATO, per gli Stati Uniti, soprattutto nel tempo dei conflitti
che stiamo vivendo (Russia-Ucraina, Israele-Hamas). Il secondo, quello più
identitario, intransigente, passatista, legato a una radice mai recisa. La
radice che non gela. E se anche fosse vero (ma è tutto da dimostrare) che
Meloni intende tagliare i ponti con il passato fascista, resistenze sparse e
assai diffuse in FDI le ricordano continuamente il rischio di perdere una parte
significativa del proprio elettorato, quella tutt’altro che moderata. È
ostaggio di un passato politico che è anche il suo.
E tutto questo avviene al riparo di uno scudo, quello della paradossale battaglia contro il pensiero unico, contro il politicamente corretto. Un pensiero unico che in molti casi è semplicemente buon senso, etica, principi minimi e civili di ogni democrazia. Perché parliamo di battaglia paradossale? Perché a parlare di pensiero unico da sconfiggere sono esponenti, prime e seconde linee, di una destra famelica che governa, che occupa spazi con una voracità inaudita, che controlla i media pubblici e influenza quelli privati che fanno capo alla famiglia dell’alleato Forza Italia.
(P. Berizzi)
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