RICORDARE LA STORIA
‘La storia intellettuale dell’umanità – ha scritto Jurij M. Lotman – si può considerare una lotta per la memoria. Non a caso la distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria, annientamento dei testi, oblio dei nessi'. La verità di questa osservazione non ha bisogno di essere dimostrata. Basta ripercorrere rapidamente i momenti fondamentali della storia dell’Europa e del mondo per trovarci davanti a continue conferme. Se ne viene prendendo coscienza sempre più man mano che l’onda di alta marea della cultura europea si ritira e fa emergere storie di culture represse o dimenticate. Non è la prima volta che questo accade. La stessa cultura europea prima di diffondere nel mondo il calendario di un tempo giudaico-cristiano dovette fare i conti con l’antichità pagana.
Ma oggi nella lotta per la memoria, l’Europa, per secoli protagonista nell’uso della sua cultura come mezzo per conquistare e addomesticare tutte le altre, appare sempre più in posizione di difesa quando non di silenzioso arretramento. E davanti alla sua storia sembra provare un desiderio bizzarro: quello di fermarla. Forse anche oggi, come nell’età del classicismo francese descritta da Paul Hazard in un suo celebre libro, ‘il povero navicello umano ha toccato finalmente il porto: possa rimanervi a lungo, rimanervi sempre! […] si vorrebbe fermare il tempo'. E magari oziare tra le pagine di un libro di gran successo dello storico israeliano Yuval Noah Harari che pochi anni fa (dunque prima del Covid-19) parlava di un trionfale presente in cui l’umanità si era lasciata per sempre alle spalle 'carestie, pestilenze e guerre'. Allora, in laboratori accademici più cauti la crisi della coscienza europea aveva già rallentato gli assemblaggi frettolosi di storie del mondo intero (Global History e World History). Quei bilanci di chiusura, buoni per guardare serenamente a una umanità tutta unita e pacificata lasciandosi alle spalle barriere identitarie e rancori nazionalistici, cozzavano sempre piú con una esplosione incontrollabile di etnie, religioni e tradizionalismi chiusi, intolleranti e arcigni verso chi bussava alla porta del ricco Occidente.
Un fatto è certo: siamo davanti a un mutamento profondo. Chi nel 1989 (Francis Fukuyama) aveva immaginato ormai raggiunta la 'fine della storia' col crollo del muro di Berlino e giunto il tempo di fermarsi a godere i frutti della liberaldemocrazia e del capitalismo ha poi dovuto fare i conti con l’unica legge fondamentale della storia umana, il mutamento. Cambiano le generazioni e i figli assomigliano ai loro tempi più che ai loro padri4, come scrisse Marc Bloch. La prospettiva delle nuove generazioni si è fatta diversa da quella dei loro padri, il mondo umano è cambiato, gli spazi e i tempi nuovi sono diversi dagli antichi, quelle che sembravano conquiste ferme e indiscutibili devono di nuovo sottoporsi alla prova della nuova configurazione del mondo. E chi profetizzava la fine della storia è stato presto disingannato. Quello che invece si è fatto sempre più evidente è un processo che potremmo definire di distruzione del passato. La definizione non ci appartiene. È stato Eric Hobsbawm nel suo celebre Secolo breve a individuare questo fenomeno con parole degne di attenta lettura:
La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei meccanismi
sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle
generazioni precedenti, è uno dei fenomeni più tipici e insieme più strani
degli ultimi anni del Novecento. La maggior parte dei giovani alla fine del
secolo è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni
rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.
Da quando sono state scritte queste parole il fenomeno si è fatto sempre più evidente, tanto da suscitare diversi allarmi dando vita a diagnosi di vario genere. Oggi si va dicendo che una nuova malattia sociale incomberebbe su di noi: quella della memoria. Inevitabile pensare per analogia alla patologia individuale dell’Alzheimer. Ma mentre questa suscita angoscia al solo evocarla, l’offuscarsi della coscienza e della conoscenza storica nella società sembra passare quasi inavvertito. Eppure è un fenomeno diffuso in molti ambienti e in diverse fasce sociali, minaccia specialmente le nuove generazioni e il mondo della scuola e devasta quello della politica. La cosa non riguarda solo l’Italia: affligge anche altri Paesi di un’Europa formalmente unita eppure resa da questa malattia sempre più fragile e spesso irriconoscibile.
È l’Europa in
primo luogo colei che appare oggi nel mondo come smarrita e dimentica della sua
grande eredità culturale. Da molti anni la delusione per la costruzione europea
nasce soprattutto davanti alla perdita di memoria di una grande realtà risorta
dalle macerie e dalle ceneri di milioni di vittime col proposito di restaurare
il ricordo e il rispetto dei suoi valori ideali ma che sembra tornare sempre più
indietro: tanto indietro da scambiare per valori europei quelli finanziari di
borse e banche, col risultato di emarginare e minacciare di esclusione la
Grecia e lasciare spesso l’Italia sola davanti al dovere di accoglienza e aiuto
per il popolo dei migranti. C’è voluto il ritorno del flagello biblico del
Covid-19 o altrimenti detto coronavirus perché voci isolate richiamassero alla
consapevolezza dell’esistenza di valori superiori a quelli della finanza e
della produzione di ricchezza: per esempio, quello della tutela della semplice
e nuda vita umana, la si ritenga dono divino o frutto del caso. Oggi la
minaccia di una pandemia globale costringe credenti e no, cultori del Vangelo o
dei valori illuministici, a incontrarsi e riconoscersi d’accordo sulla vera
scala dei valori.
Ma intanto bisogna fermarsi a riflettere sul problema della perdita del senso della storia e del generale declino di questa dimensione, negli studi e nella società. È da tempo che i sociologi mandano segnali d’allarme e parlano di perdita di memoria collettiva e di ignoranza della nostra storia recente e delle sue tragedie. Ma è anche da tempo che si moltiplicano segni di allarme davanti a precisi segnali di una tendenza diffusa, con ripetute quanto vane denunzie delle responsabilità delle classi dirigenti e dei poteri pubblici. Il fenomeno è aggravato dalla poca cura dedicata a biblioteche, archivi e musei, considerati enti inutili e non redditizi, colpiti da continue riduzioni di personale, mezzi e strumenti. Ed è rimasta inascoltata la voce di un grande storico e combattente per la libertà come Franco Venturi che nel lontano 1968 scriveva queste parole: ‘L’Italia è […] uno dei paesi in cui è più difficile e faticoso giungere a contatto con i testi e i documenti […] Siamo l’unico paese civile a non possedere una biblioteca nazionale, una biblioteca, intendo, in cui ci si possa ragionevolmente attendere di trovare qualsiasi libro e foglio apparso in ogni angolo del proprio paese, dall’invenzione della stampa ad oggi'. Il suo augurio conclusivo era allora che 'nelle mani dei bibliotecari e degli archivisti nostri vengano finalmente posti mezzi e strumenti che permettano di rendere accessibili a tutti, con ben diversi orari e con strutture organizzative completamente trasformate, i luoghi dove si conservano le testimonianze delle idee, delle lotte e delle speranze delle generazioni passate’.
Lotte e speranze, generazioni passate: cioè storia. Che non è memoria, termine che da tempo sostituisce insidiosamente quello di storia, magari con l’aggiunta di aggettivi come storia ‘collettiva’ o con più ardite semplificazioni cariche di veleni ideologici, come ‘identità’. Cosa debba intendersi per memoria collettiva è domanda che ha trovato molte risposte da quando – quasi un secolo fa – il grande pensatore ebreo francese Maurice Halbwachs (morto a Buchenwald nel 1945) propose la sua geniale tesi sull’argomento. A suo avviso, le due realtà non si confondevano né si sovrapponevano: piuttosto, si succedevano e si opponevano. La storia comincia quando finisce la tradizione vivente, quando si estingue il gruppo sociale che quella memoria aveva conservato e trasmesso. Ma dai tempi di Halbwachs molte cose sono cambiate, i gruppi sociali sono diversi e non hanno più una memoria che li leghi o che possa essere trasmessa come lascito vivente all’interno della famiglia e dell’ambiente di lavoro. L’eredità culturale è qualcosa che ogni individuo si fabbrica grazie alla scuola, alle letture, ai casi e agli incontri della sua vita essendosi dissolti ben presto dietro di lui eredità e ricordi che le generazioni precedenti non hanno avuto modo di trasmettergli. In questo il nostro tempo è diverso dalle grandi civiltà del passato su cui l’egittologo Jan Assmann ha elaborato le sue proposte sulla trasmissione di ricordi, identità e culture. Sull’esperienza del tempo presente, dominata dal contrasto fra il deposito da conservare e la ridotta capacità di ricordare, è stata la sua compagna di vita e di lavoro, l’antropologa Aleida Assmann, che ha proposto di recente una sua tesi sul tema dell’oblio: secondo lei la memoria culturale è la somma di quanto si ricorda e di quanto si dimentica.
Funziona come un collo di bottiglia: vi passa attraverso solo una parte del deposito di esperienze e di ricordi. Ma come si rende possibile la selezione e la conservazione della memoria culturale di una società? Secondo la sua analisi, quello che la garantisce e governa è 'il tetto protettivo delle istituzioni socialmente deputate alla conservazione del patrimonio, come gli archivi, le biblioteche e i musei'. Grazie a loro, le cose e le persone che sfuggono all’oblio automatico vengono separate da una forbice e depositate le une nel canone, le altre nell’archivio. Entrano nel canone opere, persone, eventi destinate a fare parte del ricordo attivo della vita sociale delle generazioni future, mentre nell’archivio – una istituzione dalle tante forme e di lunghissima esistenza nelle culture della scrittura – finisce il materiale su cui si potrà esercitare la curiosità storica. Aleida Assmann ha riportato un caso esemplare, che potrebbe dare materia di riflessione agli italiani in tempi di revisione e derisione di monumenti: la vicenda postuma di uno scrittore svizzero, Wilhelm von Scholz (1874-1969) che aveva goduto vivente di grande fama e ricevuto gli onori pubblici della sua città, Costanza. Dopo la morte, lo attendeva l’oblio “conservativo”, cioè la fase di oscurità provvisoria che passa tra la celebrità del vivente e il balzo nel pantheon dei grandi artisti riservato a pochi. Ma ecco che la scoperta di una sua poesia scritta in omaggio a Hitler ha determinato misure pubbliche formali di “oblio attivo” per relegarne nome e opera nell’oscurità.
Possiamo contare dunque sull’educato e ben regolato funzionamento a regime delle istituzioni culturali per selezionare ciò che vale la pena di ricordare? O non sarà piuttosto la violenza del mutamento sociale periodico a spazzare via ogni volta le tracce del passato? Il pensiero va a come sono finite le reliquie dei sovrani di Francia con lo scoppio della Rivoluzione francese, o alla sorte delle statue di Stalin e di altri dittatori del Novecento, un tempo incontro obbligato in tutte le capitali dell’Europa continentale. E proprio sotto i nostri occhi di contemporanei si sta svolgendo la tumultuosa iconoclastia scatenatasi negli Stati Uniti col movimento del Black Lives Matter che non ha risparmiato nemmeno le statue di Cristoforo Colombo.
Non è un caso, tuttavia, che queste considerazioni di tipo antropologico e sociologico quando si concentrano sulla età contemporanea non parlino più di memoria ma di oblio. La questione della memoria difettosa o deformata rende di nuovo attuali le esperienze e i suggerimenti ereditati da culture diverse o più antiche, facendoci scoprire quanto delicata e preziosa sia sempre stata considerata questa facoltà della nostra specie, che essendo priva dell’istinto ereditato dalle altre specie viventi ha dovuto inventare tecniche apposite per rimediare. Così si è riaccesa la curiosità per le arti della memoria, nel tentativo di capire che cosa le abbia fatte ritenere importanti nel passato della grande tradizione occidentale. La loro caratteristica fondamentale era quella di connettere parole e immagini. Oggi quella più sviluppata e che ci è più familiare nella vita quotidiana sembra essere la connessione tra luoghi e memoria: a lei hanno dedicato la loro attenzione antropologi come Mary Douglas e Pierre Bourdieu. Ma c’è una soglia fondamentale che divide il mondo moderno dall’età preindustriale….
(A. Prosperi)
Fra i paesi vincitori, l’Italia era quello che più profondamente mostrava le conseguenze· della Grande Guerra. La lunga polemica che aveva preceduto l’intervento nel 1915 continuava a lasciare le sue tracce e il modo in cui le rivendicazioni italiane venivano prese in considerazione alla Conferenza di Parigi non faceva che esasperare, sui due fronti opposti, le tensioni esistenti nel paese: esasperava i nazionalisti poiché dava loro la sensazione che gli Alleati non volessero mantenere gli impegni assunti con il Patto di Londra, facendosi scudo dell’ostilità di Wilson verso gli accordi segreti; esasperava gli oppositori del governo, che imputavano ai rappresentanti italiani a Parigi (Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino) l’incapacità di fare valere il loro punto di vista e nell’insieme contribuivano a porre le basi del mito della ‘vittoria mutilata’.
Questa era un’espressione usata dal poeta Gabriele d’Annunzio per sintetizzare la teoria secondo la quale gli Italiani avevano ottenuto una vittoria apparente e una sconfitta sostanziale, pagata con un alto prezzo umano ed economico-sociale e dunque avevano serie motivazioni per schierarsi nel campo revisionistico piuttosto che solidarizzare con le potenze ‘soddisfatte’ (ammesso che ve ne fossero). Ed esasperava, quella situazione, anche coloro che, specialmente nel campo della sinistra democratica e nel mondo socialista, avevano considerato un errore o addirittura un crimine la partecipazione alla guerra: un errore e un crimine la cui inutilità era confermata dai fatti.
Da questa insoddisfazione usciva una serie di agitazioni politiche che rendevano ancora più difficile il ritorno a una normalità che in Italia non vi sarebbe forse più stata. L’impresa di d’Annunzio a Fiume non fu che il primo di una serie di episodi legati alla nuova posizione internazionale dell’Italia, un episodio che indicava la via dell’illegalità e dell’avventurismo che Mussolini avrebbe poi imitato negli anni successivi. D’altra parte anche la situazione politico-sociale interna non era tale da convergere verso un rapido recupero. I problemi esistenti in tutti i paesi che avevano partecipato al conflitto erano vissuti, da un’economia debole e da una struttura politica fragile come quella italiana, in modi ancora più tesi.
È vero che la struttura economica era stata irrobustita dalla guerra, la quale aveva imposto alti investimenti all’industria pesante, accelerando un ritmo di crescita e di profitti, secondo la tendenza del decennio precedente. Tuttavia la conversione industriale postbellica, la persistente povertà nelle campagne, la miseria del Mezzogiorno erano aggravate dopo la fine delle ostilità dal problema del reinserimento dei reduci nella vita produttiva. In questo clima economico erano maturate novità politiche importanti.
Nel gennaio 1919 don Luigi Sturzo aveva fondato il Partito popolare, la prima organizzazione d’ispirazione cattolica che entrava come soggetto autonomo nella vita italiana, senza lasciarsi condizionare dalle esigenze del trasformismo. Il Partito socialista, fondato nel 1892 e divenuto già nel periodo prebellico una potente forza di attrazione per le classi lavoratrici, si rafforzava ulteriormente sino a presentarsi come la principale organizzazione politica del paese.
I partiti della democrazia prebellica stentavano a adeguarsi alla trasformazione. Quando, nel novembre 1919, si tennero per la prima volta elezioni a suffragio universale e con rappresentanza proporzionale, i socialisti ebbero quasi il 32 per cento dei voti, i popolari poco più del 20 per cento. I partiti nuovi nell’insieme ricevevano più consensi di quelli discendenti dalla tradizione politica postunitaria. Era un mutamento che indicava soprattutto il rafforzamento della sinistra, rispetto alla quale il movimento cattolico non riusciva certo a restare indifferente, sebbene i suoi dirigenti propendessero verso un’alleanza con le forze borghesi.
In questo quadro politico-economico, la situazione sociale ribolliva. Gli scioperi si susseguivano; il Partito socialista era formidabilmente attratto dall’esperienza russa e si sentiva vicino alla rivoluzione. L’ala riformista divenne minoritaria rispetto ai massimalisti, che furono a loro volta aggirati a sinistra dal gruppo di ‘Ordine Nuovo’ che nel gennaio 1921 diede vita al Partito comunista italiano. Questo però accadeva al culmine di un periodo di scioperi e incertezze politiche che avevano lasciato il segno. I governi di Nitti (1919) e di Giolitti (1919-2 1) cercarono di mediare le crisi facendo calare le tensioni degli scioperi secondo un metodo graduale e di contrattazione.
Nessuno dei due riuscì ad avere appoggi sufficienti per attuare programmi coerenti. Lo scontro sui temi di politica estera (e in particolare la questione giuliana) e il coerente laicismo di Giolitti circoscrivevano le forze politiche e il consenso del quale i due statisti potevano godere. Il colpo più forte al sistema fu dato però dall’acuirsi improvviso della crisi nazionale verso la metà del 1921. A tale aggravamento contribuirono in modo ovviamente opposto due ordini di fatti: l’azione del movimento fascista e la spinta rivoluzionaria che nel marzo-aprile 1920 portò all’occupazione delle principali fabbriche settentrionali.
Il movimento fascista era stato fondato da Mussolini nel marzo 1919. Benito Mussolini era già stato socialista massimalista, poi interventista acceso, poi esponente del mondo combattentistico. La sua persona e il suo movimento rappresentavano e raccoglievano nel 1919 una serie contraddittoria di istanze: una violenta opposizione alle classi dirigenti tradizionali, colpevoli di non aver fatto una politica sufficientemente energica nei confronti degli Alleati (Mussolini appoggiò, pur con qualche riserva, l’impresa dannunziana), ma al tempo stesso un’altrettanta violenta avversione contro il socialismo, accusato di avere tradito i valori nazionali.
Mussolini si dichiarava rivoluzionario, ma pensava in termini di rivoluzione politica, non di rivoluzione sociale. Egli scorgeva la decadenza delle forze politiche prebelliche e la difficoltà di creare nuove alleanze di potere e cercava di trovare in questa crisi lo spazio per affermare forze dirigenti nuove, dai programmi non chiari, ma animate tutte dalla volontà di imporre un cambiamento dell’élite politica e da un feroce antisocialismo. Il limite del movimento fascista, al di là degli atteggiamenti declamatori e demagogici del suo capo, era rappresentato dall’incapacità di raccogliere consensi nel mondo medio e piccolo borghese, a causa dei metodi violenti usati dalle squadre fasciste nelle loro azioni contro i socialisti.
Questo rapporto cambiò tra la fine del 1920 e il 1921. Il 1920 fu l’anno nel quale si ebbe in Italia il maggior numero di scioperi. La grande paura che il movimento sindacale e i partiti di sinistra provocavano negli ambienti imprenditoriali rafforzò il movimento fascista (che a sua volta aveva definito meglio il suo carattere anti socialista). L’occupazione delle fabbriche, che Giolitti affrontò con metodi che sul piano storico sono largamente apprezzati per la loro abilità, non fu accolta dagli imprenditori e dal mondo borghese con eguale perspicacia.
Il rumore così prossimo della rivoluzione rafforzò coloro che premevano per la repressione violenta. Il movimento fascista incominciò a crescere. Le sue squadre si sparsero nelle città e nelle campagne contro gli operai e contro i braccianti agricoli. Divennero il braccio secolare della repressione imprenditoriale. Dal punto di vista politico Mussolini venne legittimato poiché i partiti borghesi pensavano che il fascismo fosse solo una malattia breve ma necessaria: una rapida applicazione di violenza repressiva avrebbe rimesso la situazione in ordine, in un ordine entro il quale anche i fascisti avrebbero poi dovuto adattarsi.
Fu così che in occasione delle elezioni del maggio 1921 candidati fascisti vennero inclusi nel ‘blocco nazionale’, come esponenti dell’assetto borghese che essi avevano dichiarato di voler distruggere e del quale erano diventati difensori. Nel novembre 1921 il movimento fascista divenne partito. In seno al Parlamento e al paese Mussolini riuscì a manovrare con abilità ed energia, sino a presentarsi come il solo uomo capace di dare all’Italia quella scossa salutare che, purché di breve durata, la facesse uscire dalla perdurante confusione postbellica e dall’instabilità governativa.
I socialisti non riuscirono a contrattaccare con sufficiente determinazione. Nell’ottobre 1922, sulla scia di un movimento di forze fasciste verso Roma, orchestrato e accompagnato da innumerevoli connivenze governative, Mussolini venne incaricato dal re, Vittorio Emanuele III di Savoia, di costituire un governo di coalizione. Per l’Italia incominciava un nuovo periodo storico, sebbene molti non ne fossero perfettamente consapevoli. Mussolini infatti guidava un partito che alla Camera dei deputati aveva solo una trentina di deputati. Dovette costruirsi una maggioranza autonoma e lo fece adottando una legge maggioritaria iniqua e poi conducendo una campagna elettorale all’insegna dell’intimidazione.
Dopo i risultati che gli confermarono la scontata vittoria (novembre 1923), il nuovo governo attraversò la sua fase più difficile. Proprio i metodi elettorali fascisti avevano indignato sia gli avversari politici sia gli esponenti di molte forze filofasciste. Quando, nel giugno 1924, venne ucciso il deputato socialista Giacomo Matteotti, che protestava per l’appunto contro l’illegalità del risultato elettorale, Mussolini venne additato come il colpevole o, quanto meno, l’ispiratore del delitto*.
[*Il 30 maggio Matteotti prese la parola dal suo banco di deputato. Il suo discorso, che avrebbe potuto esaurirsi in meno di un’ora, ne durò quattro perché continuamente interrotto dai fischi e dagli urli dei fascisti. Presidente dell’Assemblea era Enrico De Nicola, che invano scampanellava per riportare la calma. I fascisti, quando non urlavano, picchiavano ritmicamente i pugni sul banco per coprire la voce dell’oratore che, imperterrito, diceva dei risultati elettorali del 6 aprile: ‘Contro la loro convalida, noi presentiamo questa pura e semplice eccezione: che la lista di maggioranza governativa, la quale nominalmente ha ottenuto una votazione di quattro milioni e tanti voti, cotesta non li ha ottenuti di fatto e liberamente’. Scoppiò il putiferio. Matteotti aspettò che si placasse, poi cominciò ad elencare le prove del clima di violenza che aveva falsato il verdetto popolare. Ad ogni tempesta di fischi e minacce, Matteotti rispondeva: ‘Io espongo fatti che non dovrebbero provocare rumore. I fatti o sono veri, o li dimostrate falsi’. ‘Voi svalorizzate il Parlamento’ urlò una voce. ‘E allora sciogliete il Parlamento’. Farinacci esplose: ‘Va’ a finire che faremo sul serio quello che non abbiamo fatto!’ ‘Fareste il vostro mestiere’ ribatté Matteotti, e ricominciò a motivare le sue denunce nel solito frastuono. ‘Onorevoli colleghi, io deploro quello che accade...’ ripeteva De Nicola, e rivolgendosi a Matteotti, lo sollecitò: ‘Concluda, onorevole Matteotti. Non provochi incidenti’. Matteotti s’infuriò: ‘Ma che maniera è questa! Lei deve tutelare il mio diritto di parlare’. ‘Sì, ma ho anche quello di raccomandarle la prudenza’ ribatté De Nicola, come presago di quanto sarebbe accaduto. ‘Io chiedo di parlare non prudentemente né imprudentemente, ma parlamentarmente’ ribatté Matteotti, e riprese la sua requisitoria intesa a chiedere l’invalidazione delle elezioni del 6 aprile. Quando ebbe finito, nel solito uragano di grida e minacce, disse, rivolto ai suoi vicini di banco: ‘Ho detto quel che dovevo dire, ora sta a voi preparare la mia orazione funebre’. Qui si pone la domanda perché mai Matteotti avesse pronunciato un discorso così scopertamente provocatorio. Come dice De Felice, non è pensabile ch’egli sperasse di ottenere da quella Camera il riconoscimento della propria invalidità. Evidentemente, egli si proponeva di spezzare sul nascere, anche a rischio della propria vita, le tendenze affiorate nel proprio partito a qualche compromesso col fascismo, ricreando un’atmosfera da scontro frontale. E così dovette intenderla anche Mussolini. Muto e immobile, egli aveva seguito il discorso di Matteotti senza mai interromperlo, e anzi dando segno di fastidio per il chiasso che facevano i suoi. Ma il volto pallido e tirato denunciava il suo furore. Quando l’avversario ebbe finito, si alzò di scatto, attraversò l’aula a passi concitati, e rientrò a palazzo Chigi. Nell’anticamera del suo ufficio s’imbattè in Marinelli, e lo investì: ‘Che fa la Ceka? ...Che fa Dumini? ...Se non foste dei vigliacchi, nessuno avrebbe mai osato pronunciare un simile discorso!’.]
Per un semestre la sua posizione fu in bilico. Alla fine del 1924 egli era riuscito a recuperare i consensi necessari e la fiducia del re. Nel gennaio 1925 dava l’avvio a una serie di provvedimenti legislativi che avrebbero trasformato lo Stato liberale italiano in un regime autoritario, e, qualche anno dopo, in una dittatura personale. L’Italia era il primo dei grandi paesi europei che subiva tale trasformazione. L’ascesa di Mussolini al potere in Italia non mostrò subito la sua portata eversiva per la vita internazionale.
Sin dal 1922 egli cercò di appagare due esigenze: quella di presentarsi all’interno come il vero artefice della grandezza e della potenza italiana; quella di ottenere dalle altre potenze il riconoscimento del ruolo italiano in Europa e nel mondo.
Nel 1923 egli diede un breve saggio della propria capacità di recare disordine nella vita internazionale, ma pochi vollero prendere sul serio il significato della sua azione. Del resto l’episodio era circoscritto e si poteva anche fingere di non vederlo. Per rispondere all’uccisione del generale Enrico Tellini, che guidava una commissione di esperti incaricata di tracciare sul terreno il confine greco-albanese (agosto 1923), il governo italiano pose a quello greco un ultimatum dalle condizioni inattuabili (non foss’altro perché esso chiedeva la cattura e la condanna dei responsabili entro pochi giorni) e, per rappresaglia rispetto all’inevitabile inadempienza greca, fece occupare, dopo un bombardamento navale che provocò numerose vittime, l’isola di Corfù, lasciando intravvedere l’idea che tale occupazione potesse con il tempo diventare definitiva, se le circostanze lo avessero consentito.
Mussolini agiva in quel modo poiché, essendo al potere da meno di un anno, aveva bisogno di successi di prestigio (o di clamore) che mostrassero all’Italia e al mondo il senso della svolta avvenuta con l’ascesa al potere del futuro dittatore. A sua volta il governo greco, reduce dalla sconfitta subita contro la Turchia, reagì con energia, investendo della questione il Consiglio della Società delle Nazioni, che avrebbe dovuto deliberare sia in merito alle richieste contenute nell’ultimatum italiano sia rispetto alle proteste della Grecia. Questa deliberazione tuttavia non ebbe luogo poiché il Consiglio preferì espropriarsi di ogni competenza, considerando che il compito di discutere il problema spettasse in primo luogo alla Conferenza degli ambasciatori, cioè all’organismo creato dalle potenze per seguire l’attuazione pratica dei trattati di pace, dal quale gerarchicamente dipendeva anche il gen. Tellini.
Questa rinuncia all’esercizio della propria autorità esprimeva però una situazione diversa da quella prospettata sul piano giuridico. Mussolini aveva ammonito gli altri membri del Consiglio che qualora essi avessero discusso nel merito alla protesta greca, l’Italia avrebbe anche potuto ritirarsi dalla Società delle Nazioni (riducendone ulteriormente il peso specifico), mentre la Francia, che ricambiava in quell’occasione l’appoggio ricevuto dall’Italia durante l’occupazione della Ruhr, indicò la via d’uscita nel compromesso giuridico.
Ma era anche un compromesso che non diceva nulla di incoraggiante rispetto all’efficacia della Società delle Nazioni nell’adempimento dei compiti che il Covenant le affidava, mentre diceva molto di scoraggiante sulla subordinazione degli interessi generali della pace e del diritto internazionale alle esigenze della politica delle potenze. Nonostante il sintomo preoccupante rappresentato dalla crisi di Corfù e la grossolana polemica con la quale, alla fine del 1924, Mussolini aiutò Chamberlain ad affossare il progetto di protocollo di Ginevra, elaborato da Herriot e MacDonald, per alcuni anni la politica estera italiana parve dominata dalla volontà di collaborare alla restaurazione di un clima di normalità in Europa. In realtà, e a meglio guardare le cose, dietro il pacifismo mussoliniano si celavano sin dall’inizio ambiguità e risentimenti non dissimili da quelli avvertiti in altri paesi europei, ma che il capo fascista intendeva tradurre nei fatti al più presto.
La principale di tali ambiguità consisteva nell’assoluta spregiudicatezza circa i mezzi mediante i quali pervenire all’obiettivo del rafforzamento mediterraneo, balcanico e imperiale dell’Italia. Mussolini ragionava in termini di pura politica di potenza e non aveva avvertito, se non per l’aspetto russo, la portata dei cambiamenti in corso. La sua viscerale avversione verso Wilson, maturata durante la crisi del 1919 sulla questione fiumana, si traduceva sul piano psicologico in una forte difficoltà a considerare gli Stati Uniti altro che una potenza finanziaria, trascurando il loro potenziale politico.
Perciò la sua strategia diplomatica si basava sulla contrapposizione latente nella vita europea tra forze tendenti all’ordine e forze tendenti al cambiamento. Egli sceglieva la posizione italiana secondo le circostanze e non sulla base di un disegno continuo e articolato. Finché la situazione europea fu dominata dalle potenze vincitrici, la sua libertà di manovra rimase circoscritta. Ma il modo secondo il quale egli oscillò tra una posizione filo-francese nel 1923-24 e una posizione filo-inglese tra il 1924 e il 1929 (salvo momentanee incrinature) anticipava la !abilità dei suoi impegni.
Poteva forse servire alla diplomazia inglese contare su una potenza che in Europa e nel Mediterraneo si contrapponesse a quella che veniva considerata l’egemonia francese. Tuttavia, al di là di questa strumentalizzazione, esisteva l’orientamento italiano, cioè la disponibilità a una spregiudicatezza che riassumeva tutta la fragilità delle illusioni concepite in materia di normalizzazione europea. Del resto, la politica italiana nella penisola balcanica e in materia di disarmo navale non faceva che confermare queste tendenze. E dunque, nella meno forte delle potenze vincitrici, la restaurazione veniva condotta con metodi nuovi e con un affiorare di ambizioni antiche ma affermate con nuova energia, che gettavano nell’insieme una luce sinistra su ciò che sarebbe potuto accadere, al mutare delle circostanze.
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