CHI DELLA FOLLA, INVECE,

CHI DELLA FOLLA, INVECE,
UN LIBRO ANCORA DA SCRIVERE: UPTON SINCLAIR

martedì 30 maggio 2023

GENTE DI CONFINE

  










Precedenti capitoli 


circa la loro Ragione








Il confino politico fu istituito come misura di prevenzione da adottare ante delictum nei confronti di soggetti che avrebbero potuto costituire un pericolo per la società, ma che ancora non avevano commesso alcun tipo di reato. Come tutte le misure preventive, il confino era di competenza amministrativa e non aveva uno scopo punitivo: il problema sorse quando del concetto di prevenzione si fece un uso politico fornendo la base con cui legittimare l’allontanamento dal contesto sociale di individui che potevano essere, realmente o meno, un pericolo: le misure di prevenzione divennero, così, ‘lo strumento principale per assicurare l’intangibilità politica’ del regime.

 

Essendo uno strumento di polizia, il confino presupponeva situazioni di mero sospetto: discrezionalità e presunzione di pericolosità assunsero un ruolo fondamentale. Se il diritto penale offriva, almeno in teoria, la garanzia di essere puniti esclusivamente per fatti oggettivi, le misure di polizia si fondavano su giudizi e non comportavano la commissione di un illecito penale. In tal modo, basandosi esclusivamente su indizi di ‘presunta pericolosità’ e non su fatti, esse rappresentarono un sistema sussidiario e complementare al diritto penale, integrando quest’ultimo senza però ad esso sostituirsi né equipararsi.




Applicandosi alle persone sospette la misura di prevenzione di polizia toccava da vicino il problema della libertà individuale.

 

L’Italia liberale aveva conosciuto il domicilio coatto che era stato usato anche per reprimere le attività politiche di opposizione, il libero arbitrio, gli eretici ‘contro’, quando ‘contro’ vuol significare ogni ingiustizia sociale dello stesso lo stato; la novità che apportò il regime fascista consistette nella nascita di un sistema istituzionalizzato di polizia con poteri propri di prevenzione e di repressione politica, presupposto di nuove norme giuridiche. Non a caso nel 1930 il consigliere della Corte di cassazione del Regno, Antonio Saccone, in merito al confino, affermava:

 

‘Certo, non si potrà esercitare una seria ed efficace tutela preventiva, se non limitando in parte lo svolgersi integrale della propria libertà personale; ma ciò non vale a far condannare senz’altro ogni misura di polizia preventiva [...] [giacché] è minor inconveniente limitare in parte l’esplicazione dell’attività individuale che non lasciar priva di tutela la sicurezza pubblica dei cittadini’.




In nome di un ‘bene comune’, quello della ‘sicurezza pubblica’, si giustificava l’adozione di misure di polizia preventive volte ad assicurare un ordine pubblico a scapito dei principali diritti civili e politici dei singoli.

 

I diritti soggettivi furono calpestati dallo stesso regolamento normativo del confino poiché era prevista la possibilità di arrestare nemici politici e di trattenerli senza rendere espliciti i capi d’accusa e senza difesa contro un mero sospetto.

 

Il tema dello Stato di diritto e del suo scardinamento tramite la prassi della detenzione senza imputazione è fondamentale, in quanto, proprio su questa regola, si basò il confino favorendo, in questo modo, la nascita in Italia di un regime dittatoriale in cui l’utilizzo di istituti contrari alle garanzie del diritto della persona e finalizzati alla repressione di una o più determinate categorie, non fu il risultato di eccessi del sistema, ma parte organica di questo stesso.




La misura di prevenzione costituita dal confino risultò contraria allo Stato di diritto innanzitutto perché non rispettava il cosiddetto principio di legalità formale (espresso dalla locuzione latina nullum crimen, nulla poena sine previa lege poenali, spesso abbreviata con la formula nullum crimen, sine lege), principio che esprime l’idea che non possa esserci reato, e quindi nessuna pena, se non esiste la legge che lo prevede. Tale convinzione, alla base del diritto moderno, era nata per garantire la libertà del singolo dallo strapotere dello Stato di polizia e per eliminare la possibilità di un uso retroattivo (principio di irretroattività) delle leggi, in modo da evitare che potessero essere considerati reati quei comportamenti che nel momento in cui essi si manifestavano non erano considerati tali.

 

Benché, teoricamente, in Italia fosse restato in vita il principio di ‘legalità formale’, il senso del nullum crimen, sine lege fu completamente svuotato perché la misura di polizia, usata per fini politici, risultò essere uno strumento snello e veloce per colpire quelle categorie che non erano imputabili tramite il sistema giudiziario. Il rapporto cittadino-Stato cambiò a vantaggio del secondo e prese il sopravvento una visione di fatto sostanziale13 del reato a scapito di quella formale.





Il confino politico fu contrario allo Stato di diritto anche per un altro motivo: esso fu applicato, non di rado, come una sanzione, per di più detentiva. Una misura di prevenzione non ha carattere giuridico e non è una punizione perché – come già detto – non consegue a nessun reato commesso. Per questo motivo una misura preventiva non può essere considerata una pena, cioè una sanzione afflittiva, detentiva. Invero, il confino funzionò, per alcuni aspetti, come una misura di sicurezza, che invece è uno strumento penale, perché colpì, nella maggioranza dei casi, ex confinati che avevano finito di scontare il loro periodo e/o ex carcerati per motivi politici: in questi casi il confino non fu usato nei confronti di persone che non avevano ancora commesso alcun reato o infrazione nei confronti del regime, ma assunse la funzione di una misura di sicurezza nell’impedire nuovi reati, nel controllare la persona e nel frenare il suo stato di pericolosità, ma senza disporre di quelle garanzie proprie di una misura di sicurezza, cioè il disciplinamento di un processo penale tramite la presenza di un giudice.




La convergenza tra le misure preventive e quelle di sicurezza non sfuggì ad alcuni giuristi italiani dell’epoca che sostenevano la fusione dei due tipi di misure poiché esse avevano una radice comune, un carattere ideologico simile (colpivano la pericolosità sociale e quella politica assimilate l’una all’altra) e le stesse finalità mirando – le misure di sicurezza – non a recuperare il singolo ma a punirlo quanto quelle di polizia. Altri esperti prospettavano per i delinquenti giudicati irrecuperabili, per i quali l’internamento in case di cura o di lavoro non avrebbe avuto alcuna utilità, il confino politico rafforzando, quindi, la tesi della convergenza fra misure di prevenzione e misure di sicurezza.

 

Il confino politico, basandosi sul concetto di nemico, di pericolosità per la società e per lo Stato, di tutela della sicurezza comune, trovava giustificazione nei principi della cosiddetta Scuola positiva. Il modello penale cui faceva riferimento la Scuola positiva, dando più importanza alla difesa sociale rispetto alla libertà del singolo, si accordava all’impostazione statalista offerta dal nuovo assetto istituzionale e politico rappresentato dal fascismo.




 Per quanto i giuristi in linea con il regime di Mussolini definissero lo Stato fascista uno Stato di diritto e lo considerassero il ‘compimento nel segno della legalità delle premesse dello Stato ottocentesco’ dopo la parentesi del regime liberale, tale assunto era privo di senso perché non si teneva conto del fatto che era un diritto nato non dal libero dibattito parlamentare e che non erano più assicurate ai cittadini le principali garanzie.

 

Durante il Ventennio si continuò a parlare di ‘Stato di diritto’ sebbene questo fosse stato profondamente adattato ai modelli che i teorici del fascismo andarono creando. Per la pubblicistica fascista lo Stato di diritto era una fase, un momento della realtà morale costituita dallo Stato etico: non essendo sempre valida la sua logica garantista soprattutto in situazioni eccezionali, lo Stato di diritto doveva porsi dei limiti e fare posto al cosiddetto Stato etico dove il cittadino continuava ad essere inteso come individuo, ma non più nella sua unicità, bensì nel suo appartenere ad una comunità nazionale.




 Lo Stato etico impegnava tutti i cittadini ad una partecipazione totale e completa, così che dal popolo potesse scaturire la coscienza nazionale. Questo Stato – unità inscindibile di potere, identificato con quello esecutivo a sua volta imperniato sul capo del governo – risultava un’entità a parte, dotata di una propria esistenza, di propri scopi e di una propria morale. A questa doveva sottostare l’individuo, la cui libertà era prevista solo in funzione dello Stato. Stato e Nazione si fondevano in una sola cosa.

 

Stato e popolo costituivano un binomio indissolubile, dove per gli individui era un dovere assoluto obbedire alla volontà dello Stato senza nessun corrispettivo di diritti. In questa ottica lo Stato etico si faceva educatore delle masse e assumeva compiti pedagogici anche nell’ambito delle pene che assumevano una funzione rieducatrice morale e sociale; ‘il ripristino della pena di morte’ e il rigore del sistema penitenziario, tuttavia, erano ben lontani ‘dal consentire il conseguimento di finalità rieducative, esprimendo piuttosto un programma intimidatorio di prevenzione generale negativa’.




 Il successo dell’efficacia del confino politico dipese non solo dalle modalità usate dal regime e dal comportamento delle autorità e delle guardie, ma anche dall’atteggiamento della popolazione civile che viveva nelle immediate vicinanze. La reazione e la ricezione della gente locale a questo strumento repressivo e il modo di rapportarsi ai ‘nemici’ dello Stato sono questioni di non facile analisi perché andrebbero tenuti in considerazione molti fattori, come il genere di questi involontari testimoni, la loro classe sociale di appartenenza, il loro livello di politicizzazione.

 

Alcune persone espressero indifferenza o diffidenza nei confronti dei confinati; altre assunsero atteggiamenti ostili o commisero azioni che resero più difficile la condizione dei perseguitati politici; altre, ancora, manifestarono forme più o meno concrete di solidarietà riuscendo ad alleviare le condizioni di chi era confinato. L’insieme è eterogeneo e non permette di individuare delle categorie, anche perché alcuni comportamenti seguirono logiche legate non alla politica ma a questioni puramente personali. Non meno interessante è la reazione della gente comune alla presenza invadente delle autorità preposte alla vigilanza dei confinati. L’atteggiamento di fronte alle guardie fu dettato, come abbiamo detto, da opportunismo o dalla paura di essere accusati di connivenza o collusione con i politici.



Questo discorso conduce al tema più generale del ‘consenso’, una questione largamente trattata dalla storiografia italiana e sulla cui parola il medesimo dibattito scientifico non è sempre concorde. Senza addentrarci nello specifico, non si può negare che il regime fascista, non molto diversamente da quello nazista, si mosse in molteplici direzioni per raggiungere il consenso: mise in moto un apparato propagandistico con strutture senza precedenti rispetto a qualsiasi altro regime autoritario; usò strumenti repressivi e coercitivi; utilizzò idee profondamente radicate nella società.

 

Non v’è dubbio che ‘la fabbrica del consenso’ fu efficace anche solo per la profonda censura che riuscì ad eliminare tutti quegli aspetti che avrebbero potuto stendere un’ombra sul governo: ad un’iniziale propaganda ‘di agitazione’, violenta, fondata su mezzi relativamente semplici come comizi, opuscoli, volantini che facevano leva su basse pulsioni e istinti ispirati a sentimenti d’odio e rivalsa, ne seguì una ‘di integrazione’ finalizzata ad influire sulle abitudini e sui comportamenti tramite la diffusione di nuovi culti e simbologie.




Lo scopo del regime era ottenere non solo l’obbedienza, tramite l’uso della forza, ma anche una sorta di interiorizzazione dello ‘spirito’ del fascismo e della personalizzazione del potere.

 

Il ‘ducismo’, come in Germania il principio dell’autorità assoluta del capo (Führerprinzip), costruì quel culto della personalità che fu un elemento fondamentale nel consolidamento del potere nel tempo. Esso si radicò tanto profondamente da dare segni di cedimento solo a partire dalla promulgazione delle leggi razziali per continuare con l’entrata in guerra e con il suo andamento riuscendo, tuttavia, a resistere addirittura post mortem.




Certamente in regimi come quello fascista e nazista non era facile dissentire apertamente con il sistema. Se il nesso repressione-consenso è stato più volte esaminato dalla storiografia tedesca, quella italiana ha registrato un notevole ritardo sia nell’affrontare questa relazione sia nell’allontanarsi dall’impostazione defeliciana che aveva sottaciuto il rapporto coercizione-consenso. Una delle conquiste del dibattito più recente è stato proprio il riconoscimento della inscindibilità del binomio consenso-strumenti repressivi. La paura di esporsi apertamente contro l’arresto di qualcuno o di assumere determinati atteggiamenti che dessero adito a sospetto di connivenza o solidarietà spinse molti ad assumere comportamenti di consenso passivo, accettazione forzata o indifferenza.

 

È anche vero che il regime fascista (come altri di tipo dittatoriale) fu espressione di un profondo e diffuso consentire su alcuni valori e idee presenti già nella società a prescindere dall’adesione politica, dall’approvazione di alcuni atti del governo o dalla simpatia per il dittatore.




Questa continuità del regime di Mussolini con alcuni paradigmi culturali e idee prefasciste ben radicate nella coscienza storica del Paese emersero con forza nel mondo industriale: la classe dirigente economica italiana, per esempio, manifestò il suo consenso al regime perché il fascismo accoglieva quel ‘patrimonio di idee sul mondo, e sull’economia in particolare, che [era] frutto di un’esperienza comune a uomini politici, economisti e dirigenti economici’. Quel retaggio culturale e ideologico radicato in Italia come il protezionismo o la trasformazione organicistica della società era stato accettato e fatto proprio dal fascismo trovando il consenso di buona parte dei ceti economici italiani, almeno finché reale fu la possibilità di un rafforzamento politico, militare e industriale del Paese e cioè fino alla primavera del 1943 quando l’imminente disfatta si fece sempre più evidente. Aderire al regime, e quindi all’economia di guerra, volle dire per molti andare incontro a vere e proprie opportunità di avanzamento sociale ed economico.





 Questo discorso, che qui è declinato al mondo industriale, può essere applicato anche ad altri gruppi sociali: alcune convinzioni culturali furono cavalcate dal regime che contò, al contempo, su una sorta di apatia, terreno fertile per il radicalizzarsi di pregiudizi trasversali ai ceti sociali, come a quelli sul bolscevismo.

 

Per spiegare il consenso non si può comunque escludere e minimizzare il verificarsi di veri e propri atteggiamenti entusiastici espressi da larghi strati della società, come quelli manifestati in occasione delle campagne di mobilitazione per le donazioni di oro. La politicizzazione delle masse (anche degli strati fino ad allora rimasti esclusi dalla politica) inquadrate nelle organizzazioni di regime, la fascistizzazione della società, il ruolo fondamentale del partito unico generarono episodi di sentita condivisione degli ideali fascisti.

 

(C. Poesio)

 







Nessun commento:

Posta un commento