BREVE PREMESSA
PRIMA DELLA
SECONDA PARTE
Prosegue con uno o più
Negli stessi anni, lo Stato celebrando lo Smemorato Sconosciuto Straniero, andava consolidando, attraverso una forma tirannica e assolutistica di governo, che dal velato - evolveva o regrediva - verso una forma dittatoriale seppur ben accolta ed accetta dai rimanenti governi d’Europa, miopi o ciechi verso l'imminente ed improprio ‘disegno’ di cui diverranno vittime di una nuova e più tragica guerra; ‘associati-dissociati’ al futuro nazismo da cui ogni Stato complice nel compromesso avversato...
Non meno dell’odierna
ugual medesima politica ampiamente
‘votata’ in difetto della stessa, innestata nel breve disgiunto ‘secondo atto’
della perduta Storia e paradossalmente di nuovo abdicata alla perenne Memoria
nella celebrazione da cui la Maschera.
E seppur
celebrata ed in offerta nell’interpretazione dello Stato per ciò di cui
difetta, ma non certo (lo Stato) di Diritto fondato sullo stesso; in quanto
Essere tale implica una serie di principi accompagnati da altrettanti obblighi
e doveri morali il quale lo stesso, abdicandoli o dandoli in appalto, ne
compromette l’esercizio.
Ovvero, ne incarna la
recitata ‘trama’ disgiunta dalla
capacità interpretativa (per come lo Stato di Diritto fondato e costituito) la
quale paradossalmente compie la mostruosità a Scena aperta.
Seppur ‘recita’ platealmente e con ampio profitto di replica con impareggiabile saggio interpretativo su ugual ‘scena’ del delitto, mascherando e in qual tempo giustificando, muovendo e non certo rimuovendo, ed accogliendo e non certo ‘cacciando’, platealmente quel populismo nel medesimo obiettivo di chi ne vuol ‘in-scenare’ ed interpretare, in nome e per conto della mafia, nuovi ruoli i più elevati meriti associati ed assisi sino alle più elevate e comode poltrone istituzionalizzate.
Immemore
dei propri ed altrui trascorsi, i quali rimembra e rinnova in disgiunta offerta
alla medesima ugual Storia, al saldo della mafia con cui sembra riscrivere un
nuovo e più ‘assolutistico concordato’, con la perenne benedizione della
Cattolicissima comitiva della Chiesa, la qual anch’essa avendo perduto Memoria, medesima Memoria circa il Sacro in merito ad ugual Dio pregato, trova più
conveniente associarsi al Bruneri tipografo
di una diversa Storia non del tutto narrata, in difetto del professore non più accetto in ordine ad una diversa ricchezza
acquisita…
In quanto medesimi personaggi sembrano non
solo ubicati in taluni posti di comando, o di propria ed impropria presunta Difesa
verso (…o contrari… quindi avversi al)la
Democrazia - nominata propriamente o non Italia -, difendere o aggredire oggi
come allora, la perseguitata calunniata nonché taglieggiata Patria,
congiuntamente messa al saldo ed in offerta in difetto di Storia (compresa
ovviamente la perduta Memoria) ai grandi iper-mercati o simmetrici ‘vertici di
comando’ posti congiuntamente in ugual gradi d’economica pretesa da cui il
riconoscimento paradossalmente avverso ai processi della Storia…
Formare i vertici di quello stesso Stato di (doppia) ‘deviata’ (mostruosa) natura il quale ebbe, se non erro, problemi di cementicata pretesa stragista. Ed il mio solo un (ap)punto di Memoria collettiva dismessa e perduta a beneficio di innominati cortigiani segretari e dubbi trafficanti non meno di sottosegretari di cui le doppiezze di antiche parentele fasciste, poco o per nulla vengono rimembrate, quando la cementificata nostalgia stragista viene rinnovata come consolidata, quindi istituzionalizzata, prendere il sopravvento sulla Memoria collettiva, nella mostruosità per come dedotta e successivamente edificata ed interpretata la Storia senza un più elevato Diritto di Natura; ovvero ugual Storia celebrata nell’offesa perpetrata a danno di più noti martiri avversi alla Mafia!
IL DOPPIO MOSTRUOSO
La
visitazione divina, nelle ‘Baccanti’, fa tutt’uno con la perdita dell’unanimità
fondatrice e lo scivolare nella violenza reciproca. La trascendenza non può
ridiscendere tra gli uomini se non ricadendo nell’immanenza, metamorfosandosi
in una seduzione propriamente ‘immonda’.
La violenza
(reciproca) distrugge tutto quello che la violenza (unanime) aveva edificato.
Mentre
muoiono le istituzioni e i divieti che poggiavano sull’unanimità fondatrice, la
violenza sovrana vaga tra gli uomini ma nessuno riesce a mettere le mani su di
essa in modo duraturo. Pronto, almeno in apparenza, a prostituirsi agli uni e
agli altri, il dio finisce sempre per sfuggire, seminando rovine dietro di sé.
Tutti coloro che vogliono possederlo finiscono per uccidersi a vicenda.
Nell’‘Edipo re’, il conflitto tragico verte ancora o sembra vertere su oggetti determinati, sul trono di Tebe, sulla regina, che è anche la madre e la sposa. Nelle ‘Baccanti’, Dioniso e Penteo non si contendono niente di concreto. La rivalità verte sulla divinità stessa, ma dietro alla divinità non c’è che la violenza.
Rivaleggiare
per la divinità è rivaleggiare ‘per niente’: la divinità non ha altra realtà
che quella trascendente, una volta che la violenza sia stata espulsa, una volta
che sia definitivamente sfuggita agli uomini. La rivalità isterica non genera
direttamente la divinità: la genesi del dio si effettua per il tramite della
violenza unanime. Nella misura in cui la divinità è reale, non è una posta in
giuoco. Nella misura in cui la si considera una posta, essa è un’illusione che
finirà per sfuggire a tutti gli uomini senza eccezione.
Ed è
proprio a quest’illusione che, in ultima analisi, si aggrappano tutti i
protagonisti tragici. Fin quando un individuo qualunque cerca di incarnare
quella violenza, suscita rivali e la violenza rimane reciproca. Non resta che
ricevere e dare botte. Proprio quel che constata il coro, che non vuole
lasciarsi coinvolgere nel conflitto tragico.
Bisogna dunque guardarsi dall’interpretare tale conflitto a partire dai suoi oggetti, per quanto prezioso ci possa sembrare il loro valore intrinseco, siano essi il trono, per esempio, oppure la regina. ‘Le Baccanti’ ci mostrano che è opportuno invertire l’ordine consueto dei fenomeni nell’interpretazione della rivalità tragica. Prima viene l’oggetto, si crede, poi i desideri che convergono indipendentemente su tale oggetto in questione, e infine la violenza, conseguenza fortuita, accidentale, di questa convergenza. Man mano che si avanza nella crisi sacrificale, la violenza diviene sempre più manifesta: non è più il valore intrinseco dell’oggetto a provocare il conflitto, eccitando bramosie rivali, è la violenza stessa che valorizza gli oggetti, che inventa pretesti per meglio scatenarsi. E’ lei, oramai, a dirigere il giuoco; è la divinità che tutti tentano di padroneggiare ma che si fa giuoco di tutti successivamente, il Dioniso delle Baccanti.
[…..]
L’individuazione
del doppio mostruoso permette di intravedere in
quale clima di allucinazione e di terrore si svolga l’esperienza religiosa
primordiale. Quando è al culmine l’isteria violenta, sorge ovunque nello stesso
tempo il doppio mostruoso.
La violenza
decisiva si compirà contemporaneamente ‘contro’ l’apparizione supremamente
malefica e sotto la sua egida.
Alla violenza forsennata fa seguito una calma profonda; si dissipano le allucinazioni, la distensione è immediata, e rende più misterioso ancora l’insieme dell’esperienza. Per un breve attimo, si sono toccati tutti gli estremi, si sono fuse tutte le differenze; è sembrato coincidessero una violenza e una pace egualmente sovrumane. L’esperienza patologica moderna, invece, non comporta alcuna catarsi senza assimilare le due esperienze, occorre accostarle.
In
numerosi testi letterari antichi e moderni figurano riferimenti al doppio, allo
sdoppiamento, alla visione doppia.
Mai nessuno
che li abbia decifrati.
Per
esempio, nelle ‘Baccanti’ il doppio mostruoso è dappertutto. Sin dall’inizio
dell’opera, si è visto, l’animalità, l’umanità e la divinità sono prese in una
frenetica oscillazione; talora si confondono le bestie con gli uomini o gli
dèi, talora invece si confondono gli dèi e gli uomini con le bestie. La scena
più interessante si svolge tra Dioniso e Penteo, appena prima dell’uccisione di
quest’ultimo, nel momento preciso, cioè, in cui il fratello nemico deve
scomparire dietro al doppio mostruoso.
Ed è effettivamente ciò che accade. Parla Penteo; l’ha afferrato la vertigine dionisiaca; egli ‘vede doppio’:
PENTEO. E io, io credo di
vedere due soli,
due volte Tebe e le mura dalle sette porte.
E te, io ti vedo come un toro che mi precede,
e due corna, così mi pare, ti spuntano dalla
testa.
DIONISO. Tu vedi proprio quel che devi vedere.
In questo passo straordinario, il tema del doppio appare in un primo tempo in forma completamente esterna al soggetto, come visione doppia di oggetti inanimati, vertigine generalizzata.
Per ora
abbiamo soltanto elementi allucinatori; certamente, fanno parte dell’esperienza,
ma non ne costituiscono il tutto, e neppure l’essenziale. Man mano che si va
avanti il testo si fa più rivelatore; Penteo associa la visione doppia a quella
del mostro. Dioniso è uomo, dio e toro a un tempo; il riferimento alle corna
del toro fa da ponte tra i due temi; i ‘doppi’ sono sempre mostruosi; i mostri
sono sempre sdoppiati.
Il sorgere
del ‘doppio mostruoso’ non comporta una verifica empirica diretta, come
neanche, a dir il vero, l’insieme dei fenomeni sottesi a ogni religione
primitiva. Persino dopo i testi sopra citati, il ‘doppio mostruoso’ conserva un
aspetto ipotetico, come tutti i fenomeni associati al meccanismo della vittima
espiatoria, di cui esso specifica taluni aspetti.
Il valore
dell’ipotesi è accertabile in base all’abbondanza dei materiali mitologici,
rituali, filosofici, letterari, eccetera, che sarà capace di interpretare, come
pure in base alla qualità delle interpretazioni, alla coerenza che instaura tra
fenomeni rimasti sino ad oggi indecifrabili e dispersi.
Aggiungeremo altri motivi a quelli che già militano in favore della presente ipotesi. Grazie ad essa è possibile delineare una prima interpretazione di due gruppi di fenomeni che sono da annoverare tra i più opachi di qualsiasi cultura umana: i fenomeni di ‘possessione’ e l’uso rituale delle ‘maschere’.
Sotto il
termine di ‘doppio mostruoso’, classifichiamo tutti i fenomeni d’allucinazione
provocati, al parossismo della crisi, dalla reciprocità misconosciuta. Il ‘doppio
mostruoso’ sorge là dove si trovavano nelle tappe precedenti un ‘Altro’ e un ‘Io’
sempre separati dalla differenza oscillante. Si hanno due fuochi simmetrici da
cui vengono emesse quasi simultaneamente le stesse serie di immagini.
Secondo ‘Le
Baccanti’, osserviamo due tipi di fenomeni e devono essercene molti altri che
possono susseguirsi rapidamente, trapassare gli uni negli altri, confondersi
più o meno. Il soggetto, nelle ‘Baccanti’, percepisce in un primo tempo le due
serie di immagini come egualmente esterne a sé; è il fenomeno della ‘visione
doppia’. Subito dopo, una delle due serie è colta come ‘non-io’ e l’altra come ‘io’.
Questa
seconda esperienza è quella del ‘doppio’ propriamente detto. Si colloca nel
prolungamento diretto delle tappe antecedenti. Conserva l’idea di un
antagonista esterno al soggetto, idea essenziale per decifrare i fenomeni di ‘possessione’.
Il soggetto vedrà la mostruosità manifestarsi in sé e fuori di sé a un tempo. Deve interpretare alla meno peggio quello che gli capita e finirà necessariamente per collocare fuori di sé l’origine del fenomeno. L’apparizione è troppo insolita perché non venga ricollegata a una causa esterna, estranea al mondo degli uomini. Tutta quanta l’esperienza è dominata dall’alterità radicale del mostro.
Il soggetto
si sente penetrato, invaso, nel più intimo del proprio essere, da una creatura
soprannaturale che lo assedia anche dal di fuori. Assiste inorridito a un
duplice assalto di cui è vittima impotente. Non è possibile difesa alcuna
contro un avversario che si fa beffe delle barriere tra il dentro e il fuori.
La sua ubiquità permette al dio, allo spirito o al demone di assalire gli animi
come più gli piace. I fenomeni cosiddetti di ‘possessione’ non sono altro che
un’‘interpretazione’ particolare del ‘doppio mostruoso’.
Non ci si
deve stupire se l’esperienza della possessione si presenta, di frequente, come
una ‘mimesis’ isterica. Il soggetto sembra obbedire a una forza venuta dall’esterno;
ha i movimenti meccanici di una marionetta. In lui si svolge un ruolo, quello
del dio, del mostro, dell’altro che lo sta invadendo. I desideri si lasciano
tutti prendere nel tranello del modello-ostacolo che li vota alla violenza
interminabile.
Il ‘doppio
mostruoso’ si presenta in seguito al posto di tutto ciò che affascinava gli
antagonisti agli stadi meno avanzati della crisi; si sostituisce a tutto ciò
che ciascuno desidera a un tempo assorbire e distruggere, incarnare ed
espellere. La possessione non è altro che la forma estrema dell’alienarsi al
desiderio dell’altro.
Il posseduto muggisce come Dioniso, il toro, o leone, fa finta di divorare gli uomini che gli vengono a tiro. Può persino incarnare oggetti inanimati. E’ al tempo stesso uno e parecchi. Vive o rivive la ‘trance’ isterica che immediatamente precede l’espulsione collettiva, il confondersi vertiginoso di ogni differenza. Ci sono culti di possessione con sedute collettive. Nei paesi colonizzati, o nei gruppi oppressi, è interessante osservare come talvolta a far da modello siano le personalità rappresentative della potenza dominante: il governatore, la sentinella alla porta della caserma, eccetera.
Ancora un’altra
pratica rituale si chiarisce alla luce del doppio mostruoso, l’uso delle ‘maschere’.
Le maschere
sono da annoverare tra gli accessori d’obbligo di numerosi culti primitivi, ma
non possiamo rispondere con certezza a nessuna delle domande poste dalla loro
esistenza.
Che cosa
rappresentano, a che servono, qual è la loro origine?
Dietro la
grande varietà degli stili e delle forme, deve esserci una unità della maschera
alla quale siamo sensibili anche se non riusciamo a definirla. Mai, infatti,
quando ci troviamo in presenza di una maschera, esitiamo a identificarla in
quanto maschera.
L’unità
della maschera non può essere estrinseca.
La maschera
esiste in società molto lontane nello spazio, perfettamente estranee le une
alle altre. Non è possibile far risalire la maschera a un centro di diffusione
unico. Si sostiene a volte che la presenza quasi universale delle maschere
risponde a un bisogno ‘estetico’.
I primitivi hanno sete di ‘evasione’; non possono fare a meno di ‘creare delle forme’, eccetera. Non appena ci si sottrae al clima irreale di un certo tipo di riflessione sull’arte, ci si accorge che questa non è una spiegazione vera.
L’arte
primitiva ha una destinazione religiosa.
Le maschere
devono servire a qualcosa di analogo in tutte le società. Le maschere non sono ‘inventate’.
Hanno un modello che può, certo, variare da una cultura all’altra ma di cui
certe caratteristiche rimangono costanti. Non si può dire che le maschere
rappresentino il volto umano ma sono a esso quasi sempre legate, in quanto
destinate a ricoprirlo, dargli il cambio o, in un modo o nell’altro,
sostituirsi a esso.
Avviene per
l’unità-diversità delle maschere lo stesso che per quella dei miti e dei
rituali in genere. Non si può riferire che a un’esperienza reale, comune a
buona parte dell’umanità e che ci sfugge completamente.
Come la ‘festa’
nella quale assume spesso un ruolo di primo piano, la maschera presenta
combinazioni di forme e colori incompatibili con un ordine differenziato che
non è, in primo luogo, quello della natura ma quello della cultura stessa.
La maschera
unisce l’uomo e la bestia, il dio e l’oggetto inerte. Victor Turner, in uno dei
suoi libri, menziona una maschera ‘ndembu’ che raffigura a un tempo una figura
umana e una prateria. La maschera affianca e mescola esseri e oggetti separati
dalla differenza. La maschera è al di là delle differenze, non si accontenta di
trasgredirle o di cancellarle, se le incorpora, le ricompone in modo originale;
in altre parole, fa tutt’uno con il ‘doppio mostruoso’.
Le cerimonie rituali che richiedono l’uso della maschera ripetono l’esperienza originaria. E’ spesso al momento del parossismo, appena prima del sacrificio, che i partecipanti indossano le maschere, perlomeno coloro che hanno nella cerimonia un ruolo essenziale. I riti fanno rivivere a quei partecipanti tutti i ruoli successivamente sostenuti dai loro antenati nel corso della crisi originaria.
In un primo
tempo fratelli nemici, nei simulacri di combattimento e nelle danze
simmetriche, i fedeli scompaiono in seguito dietro le loro maschere per
tramutarsi in ‘doppi mostruosi’. La maschera non costituisce una comparsa ‘ex
nihilo’; essa trasforma l’apparenza normale degli antagonisti.
Le modalità
dell’uso rituale, la struttura in seno alla quale si inserisce la maschera,
nella maggior parte dei casi, sono rivelatrici più di tutto ciò che coloro che
l’indossano possano dirne al riguardo. Se la maschera è fatta per dissimulare
tutti i visi umani a un determinato momento della sequenza rituale, è perché ‘la
prima volta’ le cose sono andate così.
Occorre riconoscere nella maschera una interpretazione e una rappresentazione dei fenomeni da noi stessi descritti un po’ più sopra in modo puramente teorico.
Non c’è da
chiedersi se le maschere rappresentino ancora uomini, o già spiriti, esseri
soprannaturali. Tale domanda non ha senso che in seno a categorie tarde,
generate da una differenziazione più spinta, vale a dire dal crescente
misconoscimento di fenomeni che l’uso rituale della maschera permette, invece,
di ricostituire.
La maschera
si colloca all’equivoco confine tra l’umano e il ‘divino’, tra l’ordine
differenziato che sta disgregandosi e il suo aldilà indifferenziato che è anche
la riserva di ogni differenza, la totalità mostruosa dalla quale verrà fuori un
ordine rinnovato. Non c’è da interrogarsi sulla ‘natura’ della maschera; è
nella sua natura di non averne alcuna, poiché le ha tutte.
Come la festa e tutti gli altri riti, la tragedia greca inizialmente non è altro che una rappresentazione della crisi sacrificale e della violenza fondatrice. L’uso della maschera nel teatro greco non esige quindi nessuna spiegazione particolare; non si distingue assolutamente dalle altre consuetudini. La maschera scompare quando i mostri ridiventano uomini, quando la tragedia dimentica completamente le sue origini rituali, il che non vuol certo dire che abbia smesso di svolgere un ruolo sacrificale, nel senso lato del termine. Si è anzi completamente sostituita al rito.
(R. Girard)
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