Da precedenti appunti
Crescita e Forma [1]
Intelligenza e Memoria
artificiale [2]
Le 'Lettere' e i 'Numeri' [3]
Prosegue con la:
Il 10 marzo
del 1926, alle 9,50 del mattino, il custode del cimitero israelitico di Torino
Tommaso Cibrario vide un uomo ‘d’aspetto miserabile’ avviarsi, frettoloso e
guardingo, verso l’uscita. Poiché dai primi del mese vasi funerari di bronzo
erano scomparsi dalle tombe, il custode ebbe il sospetto che quell’uomo ne
avesse appena trafugato uno: sospetto avvalorato dal fatto che quella
miserabile figura appariva deformata da un ventre enorme, a stento contenuto da
un miserabile pastrano. Gli intimò di fermarsi e corse a raggiungerlo.
L’uomo si diede alla fuga, ma fu dal Cibrario raggiunto e fermato. Dal pastrano sortì, come il custode si aspettava, il vaso di bronzo. In dialetto piemontese l’uomo disse: ‘signore, non mi rovini’; ma il custode lo consegnò alle guardie municipali Giovanni Roncarolo e Mariano Bruno, che lo accompagnarono alla loro caserma. Si tentò di verbalizzare l’accaduto, ma l’uomo rispondeva alle domande con frasi prive di senso. Pochi minuti prima, pregando il custode del cimitero di non rovinarlo, aveva mostrato di essere perfettamente in sé e di rendersi conto della rovina cui andava incontro con l’accusa di furto, e sacrilego per di più; ora sembrava invaso da follia: nello sguardo, nei gesti, nelle parole.
E così,
alle ore 14 dello stesso giorno, al vicino manicomio di Collegno lo sconosciuto
fu accompagnato.
Del suo passaggio in questura restarono però due tracce, due distinti fascicoli: uno numerato 9175 e con la dicitura ‘arresto di un individuo che rubava al cimitero israelitico’, un altro numerato 20-126 e con la dicitura ‘arresto di un individuo che commetteva atti di pazzia’.
La sentenza
di più che due anni dopo, e che veniva a cadere sul caso, diventato ben più
complesso e ribollente di passioni, dello smemorato di
Col-legno, dirà: ‘è naturale che l’individuo oggetto prima di arresto
per furto, poi di provvedimento di ricovero al manicomio, avesse intitolati a
sé due fascicoli, uno presso la Polizia Giudiziaria e l’altro presso la Polizia
Amministrativa’; ma a noi tanto naturale – e cioè logico – il fatto non appare,
anche se siamo disposti a riconoscere alla burocrazia una natura a sé, e
imperscrutabile.
che quel
giorno non una ma due persone non identificate vi passarono: una accusata di
furto, l’altra in preda a follia. Naturale il fatto può invece dirsi per il
corso che la vicenda poi ebbe: e cioè in ordine alla fantasia. Prassi o errore
che fosse della memorizzazione burocratica, quei due distinti fascicoli
ponevano il caso sotto il segno dell’ambiguità, dell’ambivalenza, dello
sdoppiamento o dimezzamento; e lo destinavano a prender nome – e poi forma –
dallo scrittore che nella realtà di quegli anni, nella vita di quegli anni,
aveva inventato (inventare: ‘la forza innovatrice, perfezionatrice, che è nel
trovare, condotta al sommo, resa feconda sì che possa creare...’) casi a questo
rassomiglianti o consimili.
Casi
pirandelliani.
A Collegno, i medici diagnosticarono ‘stato confusionale depressivo’ e ne diedero comunicazione agli uffici giudiziari, che ne presero atto e trasmutarono il ricovero dello sconosciuto in manicomio da provvisorio in definitivo.
Ma la
decisione veramente definitiva, cioè la scelta tra il mandarlo in carcere e il
farlo restare in manicomio, spettava al giudice istruttore: e fu presa il 27
maggio. Lo smemorato fu dichiarato non punibile per il furto commesso al
cimitero israelitico e affidato al manicomio di Collegno per le cure necessarie
e fino a quando non gli avvenisse di ritrovare memoria e ragione. Gli diedero un
numero, il 44170: e fu, fino al 2 marzo del 1927, il suo nome.
Per quasi
un anno, lo sconosciuto visse in manicomio come in un’oasi di serenità.
L’immagine dello sconosciuto apparve sul settimanale il 6 febbraio del 1927, in una rubrica che di solito s’intitolava ‘Chi l’ha visto?’ (e vi apparve, undici anni dopo, l’immagine del fisico Majorana). ‘Chi lo conosce?’, era questa volta la domanda del settimanale: e alla immagine aggiungeva descrizione e notizie:
‘Ricoverato
il giorno 10 marzo 1926 nel Manicomio di Torino (Casa Collegno). Nulla egli è
in condizione di dire sul proprio nome, sul paese di origine, sulla
professione. Parla correntemente l’italiano. Si rileva (sic) persona colta e
distinta dell’apparente età di anni 45’.
Parve a molti di riconoscerlo, poiché moltissimi erano i dati per dispersi nella guerra ’15-18 e non rari i casi di tardivi ritorni (di solito, però, dovuti a un felice smemorarsi, in terra straniera, tra le braccia di una donna). Tra i tanti che scrissero alla direzione del manicomio per avere più precisi ragguagli sullo smemorato o che al manicomio si recarono per vederlo fu il professor Renzo Canella, partitosi da Verona con la speranza di ritrovare il fratello professor Giulio, dato per disperso (poiché nessuno dei pochi superstiti lo aveva visto cadere) nella battaglia di Nitzopole – presso Monastir, in Macedonia – del 25 dicembre 1916.
Un neo
sotto i baffi e una cicatrice al calcagno erano i contrassegni che al professor
Renzo Canella avrebbero dato la certezza, che senza esitazioni lo avrebbero
mosso al riconoscimento: ma lo smemorato non aveva né l’uno né l’altra. Vi si
intrattenne lungamente a colloquio, però: parlando molto del fratello
scomparso, del suo carattere, dei suoi studi, della famiglia – la moglie e due
figli – che ancora, incrollabilmente, sperava nel ritorno del disperso.
Lasciando
il manicomio di Collegno, la dichiarazione di Renzo Canella fu netta: non aveva
riconosciuto nello smemorato il fratello Giulio. Ma nel viaggio di ritorno,
rimemorando gesti e frasi dello sconosciuto, e nella suggestione della grande
rassomiglianza fisica, la sua certezza cominciò a vacillare. Arrivato a Verona,
a quel questore fece perciò una dichiarazione meno decisa: di non poter
affermare che lo sconosciuto fosse il fratello Giulio. E da questa indecisione
forse non sarebbe più uscito, se non avesse ricevuto dallo smemorato una
lettera che voleva esser commossa e commuovere e che noi, oggi, non senza
fastidio leggiamo:
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