Prosegue in:
...Non sia una grande nuvola purpurea...? (15) &
Il viaggio della Speranza (16/7)
Precedenti capitoli:
L'orrore della realtà (12/3)
OGNI
RIFERIMENTO A FATTI E PERSONAGGI ODIERNI
.....PUO’ DIRSI ASSOLUTAMENTE
CASUALE!
Robert Falcon Scott e i suoi compagni di spedizione scomparvero durante
il viaggio di ritorno dal Polo Sud tra il febbraio e il marzo del 1912,
Settembre e Ottobre furono mesi decisivi per la conquista…
I loro resti furono ritrovati nel ghiaccio solo otto mesi più tardi.
Sistemati in modeste bare, vennero traslati in Inghilterra e esposti
all’interno della Saint Paul’s Cathedral a Londra. Ad accogliere quello che
tutta l’Inghilterra piangeva come l’ultimo eroe dell’Impero c’erano Giorgio V,
l’arcivescovo di Canterbury, l’aristocrazia in pompa magna e i generali
sfavillanti di medaglie e di alamari. La cattedrale era il luogo di sepoltura
di Nelson e del duca di Wellington e sembrava assolutamente appropriato
che l’esploratore fosse ricordato
all’ombra dei due più grandi militari inglesi.
Scott non aveva vinto la gara per la conquista del Polo, l’aveva persa.
Arrivato faticosamente in quello che si riteneva il punto più a sud
della Terra, aveva trovato le bandiere norvegesi piantate trentacinque giorni
prima da Roald Amundsen sul terreno ghiacciato. Il ritorno di Scott, che
scarseggiava di viveri ed era affranto moralmente e fisicamente, anche se
continuava a incoraggiare i compagni, era stato qualcosa a metà tra la vicenda
del conte Ugolino e un noir shakespeariano.
Ma con il passare del tempo e con la pubblicazione del diario ritrovato
accanto a Scott, che aveva continuato a tenere fino alla fine, la lugubre
vicenda aveva assunto i toni di un’epopea. Tutti i membri della spedizione si
erano comportati nella sventura con una fortezza d’animo degna degli antichi
romani e la situazione tragica in cui si trovavano non aveva diminuito il loro
spirito inglese, fatto d’ironia e di understatement. Uno dei più brillanti
compagni di Scott, il capitano Oates, che riusciva a malapena a camminare e non
voleva più essere d’ingombro, si era allontanato per perdersi nel freddo
glaciale dell’Antartide dicendo agli altri:
‘Vado a fare una passeggiata, non tornerò tanto presto’.
Su tutti s’innalzava la figura di Scott che personificava l’ideale di
dovere fino al sacrificio su cui era fondato l’Impero britannico. Quando la
salma uscì dalla cattedrale di Saint Paul la banda delle Coldstream Guards, con
le giubbe rosse e il colbacco, aveva attaccato l’inno nazionale e una folla
immensa che attendeva da ore fuori della chiesa intonò un possente e commuovente
God Save the King. La beatificazione di Scott impedì di raccontare tutta la
verità sulla vicenda.
Nella corsa al Polo si erano confrontati due personaggi molto diversi e
la differenza che passava tra loro era quella che poteva esistere tra un professionista
delle distese gelate e un dilettante che preparava le sue spedizioni, dirette non
esattamente in luoghi facili, con spirito amatoriale. Amundsen era un tipo
tostissimo, che aveva trascorso la prima parte della sua vita cercando il passaggio
a Nord ovest e l’aveva trovato. Dagli esquimesi aveva imparato come sopravvivere
in casi estremi e tutti quei piccoli trucchi che, a quelle latitudini, facevano
la differenza tra la vita e la morte. I vestiti di pelliccia di lupo artico che
indossava non erano un tocco di colore per farsi riprendere sulla banchina in
atteggiamento da esploratore polare. Era il miglior modo per difendersi dal
gelo.
Curava personalmente la preparazione delle sue spedizioni con
attenzione quasi maniacale per i dettagli. Era convinto che senza l’aiuto dei
cani non ce l’avrebbe mai fatta, ma non esitò a ucciderli per mangiarli quando
le razioni si erano fatte insufficienti. Non era un sentimentale e si poteva comportare,
all’occasione, come un gran figlio di puttana.
Mentre Scott aveva annunciato a tutto il mondo che stava per andare al
Polo Sud, Amundsen sembrava ancora interessato al Polo Nord. Ma alla notizia
che un americano lo aveva conquistato, non esitò un attimo a girare la prua
della Fram, la nave rompighiaccio prestatagli da Nansen, il decano degli
esploratori norvegesi, e a dirigersi verso l’Antartide, senza che nessuno
sapesse nulla delle sue intenzioni.
Lui non sarebbe arrivato secondo al Polo Nord, sarebbe arrivato prima
al polo sud.
Fra Settembre e Ottobre del 1911 il norvegese e quattro uomini, tutti
muniti di sci, partivano con slitte tirate da cinquantadue cani. Attraversando
un territorio completamente sconosciuto ed estremamente pericoloso, ma
riuscendo a mantenere una velocità ritenuta impensabile, avevano raggiunto il
Polo Sud.
Era il 14 dicembre del 1911.
Scott seppe con ritardo dello sbarco di Amundsen in Antartide, ma non
affrettò molto i preparativi della sua spedizione. Si atteggiava a grande dilettante
secondo una nobile ma abbastanza fasulla tradizione inglese. Nel passato aveva
tenuto un comportamento irresponsabile e aveva rischiato la vita dei suoi
uomini rifiutandosi di riconoscere i sintomi dello scorbuto. Diceva che era
indegno adoperare i cani, gli uomini dovevano farcela con i loro mezzi, e
trascinò con sé dei pony della steppa che finirono nei crepacci o scomparirono
sotto la neve. A differenza dei cani i pony non mangiavano i loro compagni
morti e non erano capaci di prepararsi da soli un riparo dove dormire, come
facevano i cani.
Aveva portato con sé anche delle slitte cingolate a motore che andarono
subito in mille pezzi perché erano state provate su terreni molto diversi da
quelli dell’Antartide. Quello che successe poi non era dovuto alla cattiva
sorte, ma era prevedibile fin dalla partenza. Sul diario aveva scritto:
‘Non rimpiango di aver fatto questo viaggio che ha dimostrato che gli
inglesi possono sopportare le difficoltà, aiutarsi l’uno con l’altro e
affrontare la morte con la stessa forza d’animo da sempre dimostrata’.
La retorica non l’aveva abbandonato nemmeno in quell’occasione.
La conquista del Polo non segnò la fine dei viaggi in Antartide, questi
continuarono alla ricerca dell’impossibile e paradossalmente lo trovarono: ma
non in un viaggio per terra, in un viaggio per mare.
All’inizio del 1914 Ernest Henry Shackleton, uno dei primi ad
avvicinarsi al Polo Sud con un certo successo, voleva ritornare nel continente
australe per attraversarlo da costa a costa. Un’impresa che al confronto
avrebbe relegato il viaggio di Amundsen al livello di una passeggiata
mattutina. Molti non erano soddisfatti della linea tenuta dal governo che si
traduceva in “meglio un secondo buono che un primo cattivo”, e avrebbero voluto
rispondere come si doveva ai norvegesi. In alto loco la nuova spedizione trovò
subito dei sostenitori. Shackleton partì pochi giorni dopo lo scoppio della
guerra: dall’alto arrivò la notizia secondo cui la guerra sarebbe finita a
Natale senza uscire dall’ambito europeo, mentre l’impresa in Antartide avrebbe
avuto un’eco in tutto il mondo.
La spedizione finì in una ennesima catastrofe con la nave stritolata
dai ghiacci e tutti i membri dell’equipaggio rifugiati a Elephant Island. Per
un paradossale destino questo altro fallimento inglese si trasformò nella più
celebrata e audace traversata di mare mai compiuta da esseri umani.
Il 24 aprile del 1916 cinque uomini guidati da Shackleton presero posto
sul James Caird, un canotto di legno pontato ora entrato nella leggenda, come
il Kon-Tiki, costruito pochi anni prima con quercia inglese, olmo americano e
pino baltico. Erano diretti alla South Georgia, l’isola più vicina da cui poter
chiedere aiuto, frequentata solo da baleniere. Per raggiungerla bisognava
attraversare lo stretto di Drake, dove l’Atlantico e il Pacifico si incontrano,
il tratto di mare più tempestoso del mondo. Il viaggio durò diciassette giorni
e non c’è descrizione che possa rendere la difficoltà del viaggio. Arrivati in
vista dell’isola la corrente li portò dall’altra parte rispetto al porto. Per
raggiungerlo dovettero scalare una montagna di quasi duemila metri
completamente ghiacciata. Ad accogliere Shackleton al suo ritorno a Londra, nel
1917, non si presentò nessuno.
…L’Inghilterra stava combattendo una guerra che non era finita nel Natale
del 914 e che assomigliava a una gigantesca ecatombe. Nessuno aveva voglia di
sentire i racconti di naufragi in posti remoti quando nella Somme erano morti
in un sol giorno trentacinquemila giovani. Un poeta che diventerà poi famoso
aveva scritto che i tempi degli eroi erano finiti e che il motto “Dolce e bello
è morire per la patria” non funzionava più. Era solo una vecchia bugia.
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