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La caccia (21/2)
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Cavati dagli alberi (24)
Nei paesi dove regnano selve la caccia è una tragedia.
E pensare che tutto sarebbe potuto andare diversamente!
Per i rivoluzionari del 1848, anno che rappresenta la culla della
democrazia, uno degli obiettivi era l’abolizione del diritto di caccia della
nobiltà sulle terre dei contadini. Una volta abolite le battute di caccia dei
feudatari medievali, il patrimonio di selvaggina, lasciato crescere a dismisura
solo per il divertimento dei nobili, poteva finalmente essere ridotto. Tuttavia,
la pacchia per la quale si era duramente lottato fu di breve durata. Già dopo
pochi anni furono emanate alcune leggi che consentivano la caccia solo in
riserve di circa un chilometro quadrato. I contadini non potevano permettersi
di pagare i canoni di affitto imposti, e nel giro di pochissimo tempo la caccia
tornò a essere appannaggio della nobiltà.
A ciò, agli inizi del Novecento, si aggiunse la caccia ai trofei. A
partire da quel momento, palchi di caprioli o cervi e zanne di cinghiale
diventano oggetto d’interesse e vengono esposti in fiere e mostre, dove
acquisiscono anche un valore commerciale.
Da un punto di vista meramente statistico, ogni anno, per abbattere un
grosso capriolo maschio, un cervo maestoso e un cinghiale femmina ben pasciuto,
occorre un patrimonio di fauna selvatica di circa 100 capi per ciascuna di
queste specie. E qui entra di nuovo in gioco il bosco.
In natura, per ogni chilometro quadrato di boscaglia c’è solo un
capriolo. Cervi e cinghiali sono ospiti ancora più rari sotto vecchi faggi e
querce. Prendendo in affitto una zona di caccia di 2-3 chilometri quadrati, un
cacciatore non riuscirebbe a sparare neppure un colpo con queste basse densità
faunistiche, figuriamoci portarsi a casa un trofeo di spicco da appendere in
soggiorno. Per aumentare il numero di capi, si porta nel bosco mangime per la
selvaggina e si risparmiano le femmine. E così ora per ogni chilometro quadrato
ci sono dai 30 ai 50 caprioli, ai quali si aggiungono dai 10 ai 20 cinghiali nonché,
a seconda della regione, 10 cervi. Tra le 50 e le 100 volte di più di ciò che
aveva previsto madre natura.
Lupi e linci sono già stati sterminati secoli fa dai cacciatori, e oggi
il loro ritorno è ostacolato dall’abbattimento illegale da parte dei bracconieri.
Che questo modo di praticare la caccia assomigli più a un allevamento, lo si
può comprendere dando un’occhiata al cibo che si trova nei boschi: alle schiere
di cervi affamati vengono offerti mais, avena, mele, avanzi di pane o addirittura
cioccolatini scartati dal produttore in fase di controllo di qualità. Persino
le mangiatoie di fieno, a prima vista innocue, interferiscono con l’equilibrio
naturale e determinano un aumento della selvaggina.
Con le quantità di cibo che i cacciatori scaricano nel bosco si
potrebbero tranquillamente allevare questi animali nelle stalle. Pubblicamente
i cacciatori si uniscono al coro di lamentele sui danni provocati dai cinghiali
nei giardini delle case e nei vigneti. Gli accusati ufficiali di comodo sono i cambiamenti
climatici, con gli inverni miti, e le coltivazioni di mais. Anche caprioli e
cervi vengono rimpinzati a dovere, in modo che il loro numero non diminuisca. E
lo si capisce dalle statistiche sugli incidenti che coinvolgono la fauna
selvatica, in cui restano uccisi più caprioli di quanti dovrebbero essercene in
natura.
…Questa situazione ha pesanti ripercussioni sugli alberi perché a fine inverno
cervi e compari hanno una fame irrefrenabile. Ciò che suona come un paradosso
ha una spiegazione scientifica: normalmente gli erbivori nei periodi di freddo
pungente vanno in letargo, e in certi casi la loro temperatura corporea si
abbassa addirittura sotto i 20 gradi. Se gli animali vengono nutriti, i
processi digestivi la fanno risalire e il tasso metabolico aumenta vertiginosamente.
Quindi il mangime stimola la fame: per un capriolo significa che giornalmente
deve assumere un chilo e mezzo del cibo che gli piace di più, cioè le gemme
delle piante caduche. Sui rami degli alberelli più bassi arriva comodamente e
lì trova le gemme apicali, che sono le più grosse e nutrienti. E se il capriolo
se le mangia, l’albero ha chiuso. Quel che non rappresenta un problema con un
solo capriolo per chilometro quadrato diventa una catastrofe quando i caprioli
sono una cinquantina. Tutti gli alberelli vengono rasi al suolo al punto che
molti boschi decidui non si riproducono più in modo spontaneo. Tanto è vero che
nelle foreste vengono messi dei recinti intorno a querce e faggi piantati
dall’uomo per impedire che i voraci erbivori li distruggano.
Come rimedio, ai fini della conservazione delle aree boschive, da un
secolo a questa parte sono state piantate sempre più conifere, le ortiche e i
cardi del bosco, che non piacciono agli animali selvatici. Per milioni di anni
le nostre specie arboree sono cresciute senza che gli erbivori costituissero
una minaccia. La riprova è che non sono munite di veleno, spine o altri mezzi
di difesa. Le piante delle steppe, invece, come il pruno spinoso, le rose o la
digitale, sono ben forniti di mezzi di dissuasione per gli animali. L’assalto
massiccio degli erbivori travalica la capacità di adattamento degli alberi: la
longevità e il lento ricambio generazionale, con questi enormi cambiamenti,
diventano la loro condanna. Certo, la nuova legislazione prevede un
abbattimento mirato della selvaggina, e lupi e linci sono sotto stretta
protezione; peccato che non ci sia quasi cacciatore che, nei boschi o nelle
campagne, vi si attenga.
I controlli sono sporadici, le sanzioni non abbastanza severe. C’è solo
da sperare che i predatori riprendano il controllo perché, come dice un
proverbio russo:
‘Dove c’è il lupo, c’è bosco’.
Attorno al 1980, gli scienziati avevano pronosticato la scomparsa di
boschi e foreste. Le piogge acide corrodevano foglie e radici e già a partire
dall’anno 2000 le catene montuose avrebbero dovuto essere brulle e punteggiate
qua e là da tronchi morti, tristi vestigia di un antico splendore.
Che fosse un’esagerazione oggi lo sappiamo, ma la paura di un pianeta arido
e desertico che questa notizia ha evocato è risultata utile. Le leggi contro
l’inquinamento atmosferico e l’introduzione dei catalizzatori hanno ridotto il
tasso di acidità quasi a un livello preindustriale, e il bosco si è
ripreso da queste avversità. La logica conseguenza è stata che l’interesse
della collettività per i rapporti sullo stato fitosanitario di boschi e foreste
si è spento.
Ma ora gli alberi sono davvero di nuovo sani?
La risposta non è – e non è mai stata facile.
Cominciamo spiegando la struttura di un rapporto di monitoraggio
fitosanitario. Per redigerlo, viene disegnato un reticolo con maglie di 16 per
16 chilometri contenenti ciascuna una serie di punti di campionamento che poi
verranno esaminati da periti. Si pone particolare attenzione alle foglie e agli
aghi: densità della massa fogliare, aspetto generale eccetera. Se si rinvengono
buchi nella chioma e ingiallimenti del fogliame, l’albero viene classificato
come malato.
Sembra semplice, no?
Ora, abbiamo già detto che un albero sano non è così delicato come uno sofferente.
E uno stato di sofferenza è una costante per i pecci che, lontani dalle loro
terre d’origine, patiscono il caldo e l’aridità. Anche i faggi, cui l’uomo
toglie i vicini per far legna, si ammalano per via del sole troppo diretto e
delle macchine per la raccolta del legno che ne schiacciano le radici. La
squadra di rilevamento non esamina queste cause. Di conseguenza, gli alberi
malati vengono sì identificati, ma la colpa viene data all’inquinamento atmosferico.
C’è anche un altro fenomeno che falsa notevolmente i risultati dell’analisi. Ricordiamo
ciò che ho scritto in un capitolo precedente? Se muoiono dei rami alti della chioma
di un albero vecchio, il primo temporale li spazza via e l’albero rimpicciolisce.
La medesima cosa succede agli alberi malati: anche i rami che hanno subito
danni atmosferici muoiono e vengono strappati dal vento. Se la squadra di
campionamento giunge sul posto subito dopo una tempesta, si trova davanti un
albero più piccolo, ma i rami rimasti sembrano sani. E l’albero viene
catalogato di conseguenza.
Un’altra variabile di disturbo è il fattore umano.
Se una guardia forestale nota un albero malato, lo fa abbattere prima
che muoia e divenga inutilizzabile. Quando, l’anno successivo, la squadra di
rilevamento ispeziona quel punto, l’albero mancante, nell’ambito dell’indagine,
verrà sostituito da un altro vicino che risulterà decisamente più sano
(altrimenti lo avrebbero abbattuto subito). A seguito di questo singolare
meccanismo, le statistiche sui danni forestali hanno un limite: gli esemplari
malati vengono costantemente abbattuti e quindi non sono rappresentati negli
studi statistici.
In ogni caso, gli alberi oggi sembrano più sani rispetto a vent’anni fa
e l’aria è effettivamente risultata più pulita alle misurazioni.
…Di problemi, però, ce ne sono ancora: per esempio le emissioni di
azoto del traffico e delle attività agricole. Gli ossidi di azoto rilasciati da
milioni di gas di scarico, lo spargimento di liquami dei trattori, i gas
intestinali del bestiame, i concimi azotati per i campi, che in gran parte
vengono rilasciati nell’atmosfera... tutto questo va a formare una pioggia di
ammoniaca che ricade sul bosco e che, oltre agli acidi, fa assorbire a ogni
albero abbondanti quantità di azoto. E gli effetti di questa profusione
involontaria di fertilizzante si vedono: faggi, querce, pecci e così via
crescono velocemente, molto più che in passato. L’aumento annuale in altezza e
circonferenza è circa un terzo in più rispetto a trent’anni fa, il che ha
necessariamente implicato, da parte delle amministrazioni forestali, un
adattamento delle tabelle di crescita, che poi costituiscono la base per
calcolare il numero di esemplari da abbattere. A prima vista sembra che gli
alberi scoppino di salute; in realtà, il loro è un atto di forza, e con
ripercussioni negative. La concimazione ad alto contenuto di agenti inquinanti
induce una crescita esplosiva che sottrae energia alle difese immunitarie, un
po’ come per gli atleti di body-building dopati, che hanno muscoli enormi ma si
rovinano la salute.
A ciò va ad aggiungersi, nei giorni caldi d’estate, un aumento del
tasso di ozono, ascrivibile alle emissioni di gas di scarico. L’ozono è la
variante aggressiva dell’ossigeno e corrode aghi e foglie. I danni provocati
dall’insieme di questi inquinanti si attestano sui livelli degli anni Ottanta:
l’unica differenza è che oggi la moria dei boschi, o meglio il loro
deterioramento, ha tutt’altre cause.
L’albero colpito dall’inquinamento mostra chiaramente i segni della sua
sofferenza. Per prima cosa lascia cadere una parte degli aghi o delle foglie. Questo
suona paradossale, perché in tal modo esso perde ulteriormente vitalità,
immagazzinando meno energia. La perdita delle foglie è da ricondurre a fenomeni
di corrosione. Prima che il fogliame muoia, come avviene in autunno, l’albero
si riprende una parte delle riserve per evitare di indebolirsi ancora. Sulle
conifere questo processo è particolarmente evidente: un peccio sano mantiene
gli aghi per circa 7 anni, ciò significa che su ogni ramo coesistono circa 7
cicli annuali ben distinguibili perché distribuiti per tutta la sua lunghezza,
a una certa distanza l’uno dall’altro, e infatti si possono contare come i
verticilli. Ogni anno si aggiunge un ciclo e uno vecchio, che ormai ha esaurito
la sua funzione, viene eliminato. Gli aghi del pino persistono per 3-4 anni,
quelli dell’abete bianco per 10 o più. Se però l’albero perde più aghi di
quanti se ne aggiungano, il numero di cicli annuali diminuisce costantemente e
la conseguenza è il diradamento della chioma. Questo vale anche per le piante
caduche, le quali cambiano le foglie tutti gli anni ma poiché, con la doccia di
inquinanti che subiscono, perdono di continuo piccoli rami, la sfarzosa corona
a sua volta perde via via splendore. Secondo una vecchia regola di noi
forestali, sulla sommità di un albero sano non si vedono uccelli, essendo la
massa fogliare così fitta che si possono nascondere tra le fronde.
Ma è ancora più facile giudicare, se provate a seguire l’andamento del fusto
dalle radici alla sommità. Su un albero sano, da una certa altezza in poi il
fogliame impedisce la vista. Se quindi riuscite a seguire la linea del tronco fino
in cima attraverso la chioma, significa che l’albero è già parecchio indebolito.
Per capire se il vostro albero, nei lunghi periodi di bel tempo, porta i danni dell’ozono,
basta dare un’occhiata alle foglie. Se durante i giorni molto caldi esse sono
soggette a ingiallimento (con l’eccezione delle venature) o addirittura
assumono una colorazione bronzea oppure se, nel caso di una conifera, gli aghi
presentano delle piccole macchiette, allora i danni sono presenti. La
corrosione si vede inizialmente sulla pagina superiore della foglia: solo dopo
un’azione prolungata dell’ozono, si nota anche su quella inferiore. Aiutare gli
alberi non si può, e già l’anno seguente essi sono in grado di riprendersi.
Tuttavia, l’indebolimento dovuto all’ozono di un albero che magari non è in
piena forma, in concomitanza con altri fattori, può scatenare patologie più
gravi.
Attualmente la politica, in materia di ambiente, si concentra sul tema
dei cambiamenti climatici. L’aumento delle temperature e della siccità, il progressivo
scioglimento dei ghiacci ai poli e il diffondersi di precipitazioni più violente...
Il nostro pianeta assomiglia a un paziente con la febbre. Soprattutto in
Europa, si stanno facendo sforzi notevoli per contenere l’incremento, pari a 2
gradi, della temperatura media ambientale.
Vale la pena quindi analizzare con maggiore attenzione gli effetti di
ciò che l’uomo ha fatto finora.
L’uso massiccio di biomassa ha una ricaduta pesante sugli alberi. Le centrali
elettriche si moltiplicano e il bisogno di combustibili è enorme. Oltre al
mais e alla colza, il legno è oggetto di sempre maggior interesse. La
ferale notizia è che gli alberi ricresciuti nei boschi, finora, non hanno
potuto soddisfare la fame di legno dell’industria. Se aumenta il bisogno di combustibile
nelle centrali elettriche, la situazione si fa ancora più critica.
In base alla soluzione proposta dalle amministrazioni forestali, si fa
ricorso in modo crescente al legno non utilizzabile ai fini commerciali, quindi
fronde, ramaglie o ceppi, cui oggi viene attribuito un grosso potenziale come
materia prima. Quindi, se finora la tendenza era di lasciare dov’erano gli
scarti di massa legnosa, distribuiti in modo disordinato nelle aree boschive
per ragioni ecologiche, oggi si sostiene che è meglio fare l’opposto. Insomma,
intere regioni avrebbero la pretesa di diventare aree a emissioni zero di
anidride carbonica con un po’ di legno fatto a pezzi. In questo modo, i cicli
naturali degli elementi nutritivi vengono pesantemente disturbati, perché in
circolo resta sempre meno biomassa.
…Così il suolo dei boschi viene dissanguato e impoverito. Un’amara
verità è che la teoria secondo la quale la combustione del legno non avrebbe
alcun impatto sul clima non è più sostenibile. Finora si partiva dal
presupposto che, nel bruciare, il legno liberasse tanta anidride carbonica quanta
ne aveva assorbita durante la crescita. Che fosse l’uomo a usarlo come combustibile
o batteri e funghi a decomporlo, tutta l’anidride carbonica veniva nuovamente
rilasciata nell’atmosfera. Ma questo è sbagliato. Un consorzio fra università e
istituti europei, il CarboEurope, ha
avviato un progetto di studio di vasta portata ed è giunto alla conclusione che
boschi e foreste continuano a incamerare carbonio. Proprio i boschi più vecchi
sono serbatoi di CO2 di enorme importanza e questa funzione viene persa con il solo
sfruttamento silvicolturale incessante, entrando così in una spirale in cui le
riserve vengono esaurite di continuo….
(P. Wohlleben, La saggezza degli Alberi)
(per diritto citazione art. 70 Legge 22/04/1941
n. 633)
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