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Gli Italiani (42)
Quando sentii i cuori della gioventù d’Italia
unita battere e trepidare ortodosso vociare con simpatia o avversa antipatia d’assentimento
o dissenso a’miei sensi, e quando vidi dagli occhi loro ripercuoter vociar
sconnesso misi raddoppiata la luce de’ miei fantasmi; io ripresi fiducia, e
dissi trepidamente a me stesso:
Anch’io son poeta (vivissimi applausi!).
Ahi! ma la poesia a punto è la macchia originale,
che, secondo i nostri avversari, mi esclude dalla casta politica non men che
dalla Vita!
Veramente i nostri avversari sono d’accordo con
Platone, che primo bandì i poeti dalla repubblica. Ma quella repubblica platoniana
era più lirica d’un’ode di Pindaro; e a Platone poi pareva che non
disconvenisse ai filosofi il disputare sul logos nelle corti dei tiranni di
Sicilia. Solone, per contro, componeva elegie, e pure, potendo farsi tiranno
della patria, la dotava in vece d’una costituzione che fece la gloria e la
grandezza di Atene.
Gettandoci in faccia, come qualificazione di
inabilità politica, il nome di poeta, gli avversari mostrano di non conoscere altra
poesia che quella d’Arcadia. E non ricordano qual tempera di cittadino fosse
Giovanni Milton, che fece con potenti scritti l’apologia del popolo d’Inghilterra
contro le usurpazioni dello Stuart.
E non ricordano neppure che la Germania mandò a
discutere nel parlamento di Francoforte le leggi della sua nazionale ricostituzione
Ludovico Uhland, per il merito di avere gloriosamente cantato le tradizioni e
le aspirazioni del suo popolo e dottamente illustrato la storia della poesia
tedesca; e il nobile vecchio poeta fu pari alla sua gloria e degno della
fiducia della patria, sopportando magnanimo i maltrattamenti della violenza
militare che disciolse gli ultimi avanzi dell’Assemblea nazionale.
E non ricordano, che, caduta nell’ignominia, per
gli errori di un dottrinario, Francesco Guizot, la monarchia borghese di Luigi
Filippo, un poeta, il Lamartine, oppose per intere giornate la sua eloquenza ed
il petto ai furori di piazza, e, a rischio della fama e della vita, salvò
almeno l’onore francese e la bandiera tricolore.
E in Italia, per aver fatto dei versi che
dispiacciano o non, ci si vorrebbe togliere i diritti civili!
In Italia! (bene).
Questa l’Italia!
Presento quel che mi possono opporre gli
avversari!
Ma voi non siete né il Milton né l’Uhland né il
Lamartine e gli unici Versi o brevi Epigrammi Frammentati sconnessi messaggini
mal digitati…
E né voi, che bandite i poeti dallo stato, siete ‘platoni’!
(ilarità e applausi).
Ma lasciamo gli epigrammi e le recriminazioni.
Voi, o elettori, confidandomi il mandato del collegio
dell’Eretico collegio di Lugo, avete dimostrato: che in Italia, dove Dante
Alighieri ragionò e propugnò nel medioevo l’indipendenza dello stato dalla
chiesa, dove Ludovico Ariosto governando una provincia sapeva frenare i banditi
e scrivere al principe, finché io starò in questo ufficio non sono per avervi
amico alcuno se non la giustizia.
In Italia, dove Vittorio Alfieri inaugurò il
risorgimento della nazione, e Ugo Foscolo, svelando con severo ingegno e cuor sicuro
e pietoso le piaghe della patria, fondò quella letteratura civile che fu gran parte
della nostra rivoluzione; voi, dico, o elettori, avete dimostrato che in Italia
seguire quei grandi esempi, amare un’arte che fu gloria della nazione, amarla
quanto la patria, e coltivarla con mente fedele, con animo disinteressato, con
liberi spiriti, con mani pure, non è tal colpa per cui un uomo abbia a soffrire
la diminuzione civile (applausi replicati) e chieder asilo ad altro Paese!
L’onorevole presidente del Consiglio dei ministri
nel discorso di Stradella invocava
con nobili e italiani sensi l’Italia intellettuale, l’Italia dello spirito; e
affermava che un paese non vive solamente di armi, di pane, di milioni, ma si
anche di Anima e Pensieri.
Voi, elettori di un collegio ricco e fiorente d’agricoltura
e d’industria, eleggendo a vostro deputato un cultor delle lettere, affermate
lo stesso: affermate che l’Italia oggi, come una volta, vuole lo svolgimento
intellettuale insieme con l’economico, la industria e il commercio insieme con l’arte,
il benessere non senza l’aureola della
poesia.
Io per me son poca cosa: ma il vostro voto, qui,
tra la tomba di Dante e la culla di Vincenzo Monti, è nobile, è degno. Io ve ne
ringrazio, o elettori: non per me, non per me, vi ripeto; ma per i nostri
grandi scrittori, per i miei immortali maestri, che sono i geni della nazione,
i quali voi, nel nome di un umile discepolo, avete italianamente onorato e
molte volte disonorato e rinnegato (applausi prolungati).
Se non che, fosse sola la mia colpa medesima
loro, la poesia!
Altra ve n’è, e peggiore.
Mi accusano ora monarchico ed ora democratico ed anarchico!
Sì, io sono conservatore (scoppio di fragorosi e
replicati applausi) come democratico con medesimo principio trasceso e
sconfinato senza nessun porto d’attracco ma indipendente come il Pensiero e la
Poesia o meglio la Rima a voi non gradita che lo accompagna (in senato
fragoroso applauso).
E indipendente lo divenni non per rapimento
giovanile né per dispetti ch’io avessi co’l governo dei moderati. Che anzi del
governo dei moderati io personalmente non avrei che a lodarmi. Mi chiamarono,
ancor molto giovine, senza che io ne li chiedessi, a insegnare in una delle
prime università: mi diedero anche, sempre non richiesti, altre onorificenze e commissioni
didattiche: un solo torto mi fecero, e ben lieve, e scusabile in tempi di tanta
concitazione di partiti. Né prima io avevo partecipato ad associazioni
politiche, né vi presi parte poi, per un pezzo. La mia gioventù fu tutta negli studi;
e nella solitudine degli studi nacque, crebbe, si rafforzò in me l’ideale indipendente
votato alla Poesia.
Il sessanta mi concepì democratico e monarchico,
il duemila mi trovò indipendente confuso per anarchico. Ma la repubblica mia non
è la repubblica per sorpresa: anche questa potrebbe sorgere a certi momenti, e
non è la più desiderabile ai veri repubblicani; come troppo difficile a
mantenere e ad assodare. E né meno è la repubblica oligarchica d’un partito
anche ottimo; e tanto meno la repubblica dittatoria d’una fazione. Non per
questo io credo che quella della repubblica sia solamente questione di forma:
la repubblica, per me, è l’esplicazione storica e necessaria e l’assettamento
morale della democrazia ne’ suoi termini razionali: la repubblica, per me, è il
portato logico dell’umanesimo che pervade oramai tutte le istituzioni sociali
(applausi).
Tale essendo per me la repubblica, è naturale che
essa, questo governo di tutti per tutti, deve uscire dalle persuasioni della
maggioranza; e dai voti della maggioranza io l’aspetto e spero non s’abbia a dir
col poeta…
Qual di te lungo
qui aspettar s’è fatto!
Per intanto io credo con Giuseppe Mazzini, mio
fratello, così grande filosofo come repubblicano, che ‘corra obbligo più ai
repubblicani che ad altri d’insegnare il rispetto al dogma della libertà di
pensiero e di elevarla a principio nel diritto negato’.
E anche credo… che sarebbe consiglio non buono,
se dessimo ascolto a coloro i quali (sono sempre parole di mio fratello
Giuseppe Mazzini, che li riprovava già nel Pensiero ed Azione) ‘avrebbero
voluto, che, serbandoci puri da ogni concessione all’errore e gettato anatema
sopra a ogni cosa che non fosse repubblica, ci fossimo ritratti ravvolti nel
manto della nostra fede, e, come Trasea Peto uscì del senato, fossimo usciti
dell’arena dei fatti isolandoci ed aspettando giustizia dal tardo avvenire’.
Giacché ci avete isolati!
Lo stato, la patria, è cosa di tutti; ed ogni
partito che tanto sangue ha sparso per questa patria, che questo stato ha
cementato con tanta abnegazione (io parlo dei maggiori di me), non può, non vuole, non deve abbandonare la patria e lo stato a posta di tutti gli altri
(vivi applausi). Rivendichiamo il nostro posto nella rappresentanza nazionale, in
cui tutti debbono entrare gli elementi della vita politica del paese (vivi
applausi). E noi siamo vivi; e anche noi abbiamo il diritto dì vedere....
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